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(PUNTI DI VISTA)


IL PARTENARIATO CON L'EUROPA DEVE AVERE BASI CONTINENTALI

Pubblichiamo di seguito ampi brani dell'intervista rilasciata da Abdel Ramane Chalgam, già ambasciatore libico a Roma e fine poeta oggi a capo della diplomazia libica, a Khaled Saad Zaghloul e pubblicata su "Al-Ahram Hebdo"del 29/11/2000, nella quale espone il punto di vista libico sul processo del partenariato euro-mediterraneo dal quale la Libia è esclusa, anche se ha partecipato, come osservatore, alla Conferenza ministeriale di Marsiglia del 15 e 16 novembre u.s.

Domanda: La Libia non doveva partecipare alla conferenza ministeriale euromediterranea di Marsiglia. Ma ha cambiato presto parere. Perché questo voltafaccia visto che siete contrari al processo di Barcellona?

Risposta: Primo, io ho assistito ad Euromed in risposta a un messaggio speciale del ministro francese degli Affari esteri, Hubert Vedrine, presidente della conferenza, nel quale ha insistito sulla nostra partecipazione dichiarando che la Francia si augura sviluppare le relazioni franco-libiche.

Secondo, bisogna notare che le rive del Mediterraneo si estendono in Libia per 1850 km. D'altronde, la Libia ha assistito alla conferenza a titolo d'invitato speciale, in quanto osservatore.

Tuttavia, noi esprimiamo un'opposizione fondamentale al processo di Barcellona sia per la forma sia per il contenuto. Per quanto riguarda la forma, è inquietante. L'Europa è un corpo di 15 Stati riuniti nel seno dell'Unione Europea (UE) mentre i paesi mediterranei sono dispersi in Asia e in Africa. Essi non sono riuniti in un corpo regionale, a parte il partenariato euromediterraneo.

E poi, la Giordania non è un paese mediterraneo, perché è stata invitata? L'Iraq non è un paese mediterraneo, perché non è stato invitato? Dicono perché l'Iraq ha dei problemi,etc. Di più, vi sono due membri essenziali al processo di Barcellona: la Palestina e Israele. Questi due paesi sono in guerra. Tuttavia, sono entrambi presenti alla riunione! Altra cosa, Israele occupa i territori di paesi membri di Barcellona (Libano, Siria, Palestina). Si dimostra così che esistono numerose anomalie dal punto di vista della forma.

Per quanto riguarda il contenuto, l'UE ha elaborato una formula e ci chiede di seguirla. Questa formula potrà convenire agli Europei, ma non obbligatoriamente a noi. Per esempio, quando loro parlano di democrazia, parlano della loro democrazia, di pluralismo.E quando parlano di diritti dell'uomo, è sempre ai loro valori che si riferiscono.

Loro permettono il matrimonio omosessuale, lo considerano come uno dei diritti dell'uomo. Tuttavia, essi si oppongono alla poligamia, pretendendo che non è un diritto dell'uomo. I nostri valori sono differenti. Allorquando Salman Rushdie ha attaccato il profeta Maometto, è stato premiato. Ma quando il filosofo francese Roger Garaudy ha rifiutato, sulla base di documenti e di prove, i miti sionisti è stato tradotto in tribunale e condannato. Noi rifiutiamo la dipendenza, questa è una specie di occupazione, di egemonia.

Domanda: Allora, come concepite la formula adeguata per una cooperazione regionale con l'Europa?

Risposta: La formula attuale della cooperazione è inquietante, inaccettabile.Noi operiamo per una formula di coordinamento mirante allo svolgimento di un summit regolare euro-africano, come si è avuto un summit euro-asiatico.

Si devono avere delle relazioni afro-asiatiche, afro-europee, cioè a dire su una base continentale.

D'altronde, noi vogliamo sapere con chi o contro di chi è l'Europa dei Quindici. Essa era per l'intervento umanitario in Kossovo. Ma nel Mediterraneo vi sono dei bambini, dei giovani e dei civili che sono uccisi ogni giorno (ndr: in Palestina). Perché non s'interviene?

Domanda: Giusto, come reagite voi alla neutralità manifestata dall'Europa nei riguardi degli scontri israelo-palestinesi?

Risposta: Io desidero affermare che la posizione libica è vicina a quella degli altri paesi arabi che hanno dimostrato la loro indignazione contro ciò che accade in Palestina.

La presenza libica alla conferenza di Marsiglia ha dunque rappresentato una forza aggiunta al rifiuto arabo dell'intransigenza israeliana e della negligenza internazionale nei confronti dei massacri commessi contro il popolo palestinese.

Il conflitto palestinese è cominciato 50 anni fa. Tuttavia, l'Europa tratta questa questione come se il sangue scoresse da appena 50 ore o da 50 minuti. Questo è un grande errore ed è razzismo internazionale: chi non è ebreo non è un cittadino. Gli ebrei devono sapere che questa formula razzista è inaccettabile e che non può condurre ad alcuna pace o riconciliazione. Spetta all'Europa, se essa vuole aiutare le due parti, di elaborare una formula democratica non razzista.

Domanda: Le relazioni bilaterali egiziane-libiche hanno conosciuto qualche ombra allorquando il colonnello Gheddafi ha ridicolizzato, su un canale satellitare arabo, il summit arabo del Cairo prima che cominciasse. Ciò ha spinto alcuni giornalisti egiziani a criticare vivamente questa posizione. A che punto sono queste relazioni oggi?

Risposta: Le relazioni egiziane- libiche sono più forti degli scritti dei giornalisti. Di più, le relazioni che legano il colonnello Gheddafi e il presidente Moubarak sono fraterne e amichevoli. D'altronde, nel suo intervento Gheddafi non ha per niente criticato Moubarak. Al contrario, ha fatto il suo elogio e gli ha offerto il suo sostegno ed appoggio. E' dunque tempo di superare quest' incidente. In questo periodo abbiamo bisogno di penne obiettive e conciliatrici.

E' negli interessi degli Arabi che vi siano delle voci estremiste. Perché dobbiamo essere tutti colombe? Perché dobbiamo tutti accettare gli accordi con Israele e firmarli? Perché dobbiamo tutti seguire Barcellona e firmare?

In Israele, ci sono la destra, il centro e la sinistra. Perché non si può avere fra gli Arabi una destra e una sinistra? Perché non possiamo essere noi, i libici, il Likoud arabo?

Il Likoud è razzista e sanguinario. Tuttavia, con questo si dialoga. Perché non accettare il "Likoud arabo" che promette di preservare i diritti degli arabi? La Libia ha una propria opinione. Essa ha pagato caro, col sangue dei suoi figli, con la sua libertà. Ci hanno bombardato, ci è stato imposto un embargo ma siamo riusciti a sopravvivere.  La regione araba dall'Oceano atlantico al Golfo è stata occupata dai Romani, dagli Spagnoli, dai Francesi, dagli Italiani e d'altri. Ma essi sono tutti partiti e noi siamo sopravvissuti.

Domanda: A che punto sono le relazioni con la Francia, soprattutto dopo che il giudice francese Jean-Louis Brughiere ha chiesto di coinvolgere il nome del colonnello Gheddafi nell'attentato contro l'aereo francese dell'UTA?

Risposta: Noi vogliamo relazioni speciali con la Francia e il governo francese lavora per sviluppare queste relazioni. In piena crisi dell'attentato contro il volo dell'UTA, noi abbiamo tenuto a non rompere le relazioni diplomatiche franco-libiche.

Domanda: Quale azione preconizzate per aiutare il popolo palestinese?

Risposta: Non è a noi che spetta la decisione, ma ai popoli. Quanto a ciò che noi abbiamo fatto per il popolo palestinese, la Libia è stato il primo paese ad aprire sottoscrizioni in ogni città e villaggio per raccogliere doni da inviare all'Intifada. Di più, i libici stanno donando sangue alle vittime delle violenze israeliane.Gli Arabi devono mostrarsi all'altezza della collera della strada araba, altrimenti io non so cosa potrà accadere. Oggi, il livello d'istruzione è alto e vi sono i canali satellitari. Gli anni della sottomissione sono finiti. Gli Arabi si trovano di fronte ad una sfida importante. I dirigenti devono assumere la responsabilità ed essere all'altezza del sangue che scorre in Palestina. Altrimenti non potranno scampare alla rabbia della strada. 

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VERSO UN VERTICE BACHAR ASSAD - SADDAM HUSSEIN ?

Un'incontro al vertice fra i Presidenti siriano e iracheno? Fino a pochi mesi addietro un'ipotesi siffatta era semplicemente impensabile, oggi sembra essere divenuta probabile, domani potrebbe divenire possibile e dopodomani attuabile. Siamo di fronte- come ci illustra l'articolo di Khalil Attyah su "AfricaAsie" del 28/11/2000- ad un'eventualità che potrebbe trasformarsi in evento clamoroso, capace non soltanto di rilanciare gli attuali, pessimi, rapporti bilaterali fra Siria e Iraq, ma anche di riallacciare il filo del dialogo e della cooperazione fra Iraq e mondo arabo e pertanto influire nell'evoluzione dello scenario politico ed economico dell'intera regione mediorientale, con particolari ripercussioni sul conflitto arabo-israeliano e quindi anche sull'area mediterranea. Perciò ci è sembrato opportuno segnalare questo articolo ai lettori d'Infomedi. (a.s.)

Nel momento in cui l'attualità internazionale era concentrata sul sangue che scorre in Palestina le cancellerie occidentali, e in particolare gli Stati Uniti, osservavano con inquietudine il disgelo fra Bagdad e Damasco.

La visita di quattro giorni a Damasco effettuata da Tarek Aziz, vice Primo ministro e uomo di fiducia del rais iracheno, i suoi incontri con il nuovo presidente siriano, Bachar al-Assad, e col capo della diplomazia, Farouk al-Chara'a, hanno colto di sorpresa i diplomatici americani che avevano, fin qui, escluso nei loro più pessimistici scenari l'ipotesi di un asse Bagdad-Damasco.

Per il momento, il problema è quello di normalizzare le loro relazioni, prima di passare ad una maggiore velocità. In attesa di una tale accelerazione, ci si interroga ancora sul significato di questa visita. Quali temi i due uomini hanno affrontato? A quali accordi sono arrivati?

Prima di rispondere a queste domande, conviene segnalare che la crisi dei rapporti tra i due paesi viene da lontano, molto lontano. Nella loro lotta fratricida, sono state utilizzate tutte le armi, senza alcuna riserva. L'Iraq non ha risparmiato i suoi sforzi per destabilizzare il regime siriano. Ha sostenuto in Libano le forze ostili alla presenza siriana. Dal suo lato, Damasco ha dichiarato la guerra totale all'Iraq, organizzando una serie di assassini contro i dirigenti e le personalità considerate pro-Iraq in Libano, tentando di rovesciare il potere a Bagdad e, cosa più grave, schierandosi con l'Iran islamico (sciita n.d.r.) contro l'Iraq baatista durante la prima guerra del Golfo, bloccando l'oleodotto che trasportava il petrolio iracheno, via Siria, ben prima della Tempesta del deserto, alla quale la Siria ha partecipato militarmente, a fianco della coalizione occidentale, sotto la bandiera americana. Hafez al-Assad si vantava d'altronde che, senza di lui, il presidente Bush non avrebbe potuto scagliare la Tempesta del deserto. Ciò per dire dell'odio che egli nutriva verso Saddam Hussein.

Senza questo richiamo, non si può valutare la portata capitale di questa visita. Poiché è la prima a questo livello, almeno ufficialmente, fra le due capitali dopo il 1979. Ma le cose hanno cominciato a cambiare da circa tre anni, quando Damasco ha schiuso le sue frontiere per consentire a Bagdad d'importare merci e prodotti di prima necessità per una popolazione che soffre le conseguenze dell'embargo imposto dagli USA. Damasco ha anche consentito che una certa quantità di petrolio iracheno fosse trasportato per pipeline.

Tuttavia, i segnali più significativi del disgelo sono apparsi quando il capo della diplomazia siriana, Farouk al-Chara'a, ha espresso davanti all'Assemblea generale dell'ONU, in occasione del summit del millennio nel settembre scorso, la sua indignazione di fronte all'embargo contro l'Iraq.

Una dichiarazione a cui seguì un tete-a-tete Tarek Aziz- Farouk Chara'a- grazie alla mediazione di Bouteflika- nel corso del quale fu decisa la visita di Aziz a Damasco.

Essendo stato tale invito concordato fra il ministro siriano e il suo presidente, Bachar Al-Assad, significava che Damasco e Bagdad avevano deciso di voltare la pagina di vent'anni di dissensi. E così è stato, alla luce degli incontri tra il capo di Stato siriano e Tarek Aziz.

A voler credere a certe fonti arabe, l'atmosfera che regnava tra i due uomini era scevra di ogni tensione, anche perchè si è accuratamente evitato di evocare i temi che dividono, ovvero gli anni neri della lotta fratricida.

Da una parte e dall'altra, si è voluto guardare al futuro. Questa nuova disposizione di spirito, ovvero questo cambiamento di rotta politica, si è manifestata quando Bachar al-Assad ha proposto un summit arabo con la presenza dell'Iraq. Il giovane presidente siriano è stato- sembra- molto sensibile agli argomenti avanzati dal suo ospite iracheno.

Ciò che Tarek Aziz ha chiesto, in qualche modo, al capo di Stato siriano era di aggiungersi agli sforzi di tutti coloro - Arabi, Occidentali e Russi- che domandano la revoca dell'embargo.

Ed è a seguito di questa visita che la Siria ha aperto il suo spazio aereo a tutti gli apparecchi disposti a violare l'embargo. La Siria ha già inviato tre aerei civili a Bagdad. I negoziati per ristabilire i collegamenti aerei fra i due paesi sono assai avanzati. I flussi di scambio di persone e merci s'intensifica, così come le delegazioni ufficiali. I collegamenti ferroviari sono stati ripresi.

Ma un vero rilancio è possibile senza un summit Saddam Hussein- Bachar al-Assad?

E' vero, come sostengono alcuni bene informati, che Tarek Aziz abbia trasmesso un invito a Bachar al-Assad per un incontro in "qualche parte" con il presidente Saddam Hussein?

Un asse Damasco-Bagdad modificherebbe radicalmente il rapporto di forze nella regione. La Siria vedrebbe molto rafforzata la sua posizione di fronte a Israele. I Palestinesi non sarebbero più così isolati nei loro negoziati o nel loro conflitto con Israele.

Infine, e questa è la cosa più importante, un disgelo con Damasco renderebbe l'embargo contro l'Iraq praticamente caduco. Avrebbe profonde ripercussioni sui comportamenti delle monarchie della penisola araba, e anche dell'Iran, nei confronti di Bagdad. Un' evoluzione inquietante per gli interessi strategici americani. Ormai, un braccio di ferro Washington- Damasco sarà ineluttabile?

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LE CONVULSIONI DELLA "PAX AMERICANA"

(di Subhi Madidi in "Le nouvel Afrique Asie" del 28/11/2000)

Verso la fine del mese di agosto, il celebre cronista americano William Pfaff scriveva su International Herald Tribune: "La debolezza degli Stati Uniti risiede nel fatto che sono l'ultima potenza planetaria che si crede investita di una missione universale. Partendo da qui, essi basano la loro politica estera e la loro identità nazionale su  un' ideologia che sancisce il modello americano come il migliore, se non l'unico modello per la società umana del futuro. E Pfaff conclude:" La pax americana, come la pax britannica, come prima la pax romana, è necessariamente una missione limitata nel tempo e c'è da scommettere che i giorni di questa missione sono contati e che finirà più presto che non si credeva".

Forse è in Medio Oriente, più che in altre contrade del mondo, dove oggi sono più evidenti i segnali che annunciano la prossima fine della pax americana. Il clima che vi regna è, in tutti i casi, molto diverso dall'euforia che aveva seguito la "vittoria" americana nella guerra del Golfo, che aveva permesso al presidente USA George Bush d'inaugurare il "Nuovo ordine internazionale". Questo declino è chiaramente evidente in tre campi: il crollo della dottrina del doppio argine (contro Iran e Iraq) - crollo che si traduce nello sbriciolamento dell'embargo imposto all'Iraq da circa 10 anni-; il rinculo del ruolo americano nel processo di pace israelo-palestinese; ed infine la caduta vertiginosa della credibilità degli USA presso l'opinione pubblica araba, giunta al suo livello storico più basso.

Gli aerei civili che atterrano, da oltre un mese, all'aeroporto internazionale Saddam Hussein di Bagdad, ad un ritmo sempre più accelerato, violano il blocco aereo che colpisce questo paese dopo la guerra del Golfo del 1991.

I paesi che inviano i loro aerei a forzare l'embargo illegale non ignorano che contribuiscono così a fare fallire il blocco implacabile e multiforme imposto al paese da oltre un decennio. Agendo a questo modo, cioè contribuendo a demolire l'embargo, essi sanno di dare un colpo ad una delle opzioni centrali della politica americana in Medio Oriente: la dottrina del doppio argine, di cui si assiste - in questi giorni e ore - alla sepoltura.

Iran ed Iraq, i due paesi "paria" bersaglio di questa dottrina, cominciano in effetti a uscire dalla "gabbia" nella quale Madeleine Albright, la segretaria di stato americana, secondo le sue stesse parole, li ha voluti rinchiudere.

Nello stesso tempo, Martin Indyk, l'architetto della dottrina del doppio argine, si trova, a sua volta, "arginato", se così si può dire, poiché il Dipartimento di Stato lo ha sospeso dalle sue funzioni di ambasciatore americano a Tel-Aviv, sospettandolo d'avere infranto le consegne di sicurezza in vigore nell'amministrazione americana relative alla protezione dei documenti top-segret ai quali aveva accesso.

Questa dottrina, bisogna ricordarlo, presentava diverse lacune nella sua elaborazione.

  1. A dispetto della complessità di questo concetto, non da l'impressione di una dottrina strategica coerente e razionale nella misura in cui sono le forze armate americane che avranno l'incarico esclusivo di applicarla, con il finanziamento integrale delle monarchie del Golfo. Ma queste ultime sono sempre più recalcitranti o incapaci di portare un tale fardello finanziario, perciò a rilevarlo sarà chiamato il contribuente americano. E questo è pronto a pagare?
  2. Sui tre principali poli che dividono la regione del Golfo, Iraq, Iran e le petromonarchie, il doppio argine comporta l'associazione col polo più vulnerabile: le monarchie del Golfo. Per l'attuazione di questa strategia, gli USA hanno soltanto un partenariato con le sei monarchie del Consiglio di cooperazione del Golfo che si trova esso stesso impacciato e lacerato dagli innumerevoli conflitti frontalieri e politici che oppongono i suoi diversi membri. E' anche molto diviso sulla questione del mantenimento dell'embargo all'Iraq, pietra angolare della dottrina del doppio argine. Gli Emirati arabi uniti hanno già inviato un aereo umanitario a Bagdad. Saranno seguiti da altri.
  3. Gli architetti della dottrina del doppio argine considerano che il sostegno d'Israele, della Turchia e dell'Egitto sia indispensabile per il suo successo. Analizzando da vicino il caso di ciascuno di questi partners presunti, si constata fino a quale punto questa impresa sia pericolosa. Lo Stato ebraico è certo interessato all'arginamento di Iran e Iraq, ma non può contribuire militarmente alla sua applicazione. L'eventuale partecipazione dell'esercito israeliano a una guerra americana contro un paese arabo o musulmano è "improduttiva" psicologicamente e disastrosa strategicamente per gli interessi americani e quelli dei suoi alleati arabi regionali. Quanto alla Turchia, che ha pagato un prezzo esorbitante a causa del proseguimento dell'embargo economico contro l'Iraq, sembra che non desideri essere implicata in una nuova avventura militare dalle conseguenze disastrose, anzi è riuscita, per vie traverse e non riconosciute, a svuotare questo embargo del suo contenuto. Su questo piano, ogni ritorno indietro è escluso, tanto sono importanti gli intrecci economici di questi scambi informali. Infine l'Egitto, terzo alleato regionale supposto, non ha la volontà, e ancor meno i mezzi, di riprovarci. Esso si considera in ogni caso mal ricompensato dalle monarchie del Golfo per la sua partecipazione alla Tempesta nel deserto. La Dichiarazione di Damasco, una sorta di alleanza militare ed economica nata a fine guerra sulle macerie dell'Iraq, che raggruppa le sei monarchie del Golfo, la Siria e l'Egitto, è nata morta.
  4. Gli architetti della dottrina del doppio argine escludevano ogni riavvicinamento tra Iraq e Iran, le due vittime di questa strategia. Essi pensavano che fosse ancora viva l'acredine degli iraniani nei confronti dell'Iraq dopo la prima guerra del Golfo, che aveva opposto i due paesi dal 1980 al 1998. Ma è ragionevole costruire una politica sulla sola acredine? L'Iran, potrà continuare all'infinito a voltare le spalle al suo vicino "arginato", come lui, dagli USA, loro nemico comune ? L'acredine, per quanto profonda sia, non guida gli interessi degli Stati. La prova è stata fornita dall'incontro a New York fra il presidente iraniano Mohamed Khatami e il numero due iracheno, Taha Yassine Ramadhane, nel quadro del Summit del millennio (settembre), seguito, un mese dopo, dalla visita del ministro iraniano degli affari esteri a Bagdad, dove è stato ricevuto da Saddam Hussein.
  5. Il doppio argine implica il mantenimento dell'embargo contro l'Iraq fino a una data indeterminata. Una tale scommessa non tiene conto, questo è il meno che si possa dire, dell'evoluzione della comunità internazionale in rapporto all'embargo. Tanto più che Bagdad si è allineata a tutte le condizioni previste dalle risoluzioni n. 661 e 687 del Consiglio di sicurezza dell'ONU, senza parlare delle condizioni che sono state aggiunte, sotto il diktat americano, senza alcun fondamento giuridico. Come, per esempio, l'interdizione di fatto, illegale, dei collegamenti aerei con l'Iraq.
  6. A tutti questi fattori che rendono caduca e inoperante questa dottrina, conviene aggiungerne uno, accuratamente nascosto negli ultimi anni a dispetto della sua importanza capitale in tutta la Storia del Medio-Oriente: il prezzo del barile del greggio. Oggi, che questo prezzo s'invola, raggiungendo i 38 dollari, i consumatori e i dirigenti occidentali si ricordano del petrolio. Questa situazione è tale da rovesciare l'approccio internazionale della questione irachena da cima a fondo. L'embargo imposto all'Iraq non suscita più l'unanimità dei consensi nel Consiglio di sicurezza. Una frattura netta separa ormai l'asse Washington-Londra, partigiani implacabili del mantenimento dell'embargo, dall'asse Parigi-Pechino-Mosca che chiede la revoca rapida delle sanzioni inique che colpiscono la popolazione irachena. Ma non è solo a proposito dell'Iraq che la pax americana è in difficoltà. Nel processo di pace israelo-palestinese, il padrino americano vede il suo ruolo malridotto. Il fallimento del summit di Camp David II ha mostrato, fra l'altro, che il presidente Arafat non è così disarmato come sembrava. La sua arma segreta ed efficace è il potere di dire "no". Servendosene, egli ha provato che possiede la capacità di mettere nell'imbarazzo i piani americani di regolamento - troppo schiacciati su quelli di Barak - di costringere i suoi interlocutori e i suoi avversari a una redistribuzione delle carte e di modificare i rapporti di forza al tavolo dei negoziati o sul terreno. Il mondo intero è stato d'altronde testimone, nelle ultime settimane, del fatto che gli USA non sono più l'unico attore o l'unico patrocinatore dei negoziati di pace tra l'Autorità palestinese e lo Stato ebraico. Al summit di Charm el-Cheikh (16-17 ottobre), l'ONU, rappresentata dal suo segretario generale, e l'Unione Europea, fatto rarissimo dopo un decennio, hanno segnato un ritorno certo timido ma rimarchevole.Questi sviluppi hanno indotto Madeleine Albright a mettersi nelle mani della diplomazia francese per tentare di fare uscire dall'impasse il processo di pace. La conferenza di Parigi si è svolta alla presenza di Kofi Annan perché Arafat non desiderava più un tete-a-tete con americani e israeliani. La situazione è così grave che il presidente Clinton, dopo i fallimenti del vertice di Parigi e di quello di Charm el-Cheikh, non è riuscito a convincere i palestinesi e gli israeliani a reincontrarsi a Washington.
  7. Parallelamente a queste delusioni americane, la strada araba ha costretto i regimi arabi recalcitranti a convocare una riunione al vertice, la prima dopo la guerra del Golfo, alla quale è stato invitato l'Iraq di Saddam Hussein e lui personalmente. La preferenza dell'Amministrazione americana era per un summit quadripartito fra Arafat, Barak, Clinton e Moubarak, piuttosto che a un summit arabo, le cui decisioni non potranno che contrastare i piani americani.Aprendo così il dossier del ritorno dell'Iraq nel concerto dei paesi arabi, una misura in se costantemente combattuta dagli USA. Ed è molto significativo notare che l'Arabia saudita, dopo un rifiuto iniziale, ha finito per autorizzare un aereo civile yemenita, in partenza per Bagdad, a sorvolare il suo territorio. Nello stesso contesto, Ryadh ha chiesto ufficialmente al comitato delle sanzioni dell'ONU l'apertura di un punto di passaggio sulla frontiera irachena-saudita per portare aiuto umanitario all'Iraq. Un ultimo sintomo della crepa nel "nuovo ordine americano" in Medio Oriente è percepibile nella recrudescenza dell'antiamericanismo nella strada araba, in parallelo con il rinculo della popolarità e della simpatia di cui godevano gli USA presso certi paesi protetti come il Kuwait per esempio.

L'attentato mortale nel porto di Aden contro uno dei bastimenti più moderni della flotta militare americana, incaricata di fare rispettare l'embargo contro l'Iraq, che ha causato la morte di 17 militari, è intervenuto a ricordare- se ce ne fosse stato bisogno- le convulsioni della pace americana in Medio Oriente.

La pax romana e la pax britannica consistevano, essenzialmente, in un insieme di accordi regionali e planetari la cui finalità era la difesa degli interessi dell'impero, adattandosi- al bisogno- a certi compromessi specifici per raggiungere questi obiettivi. La pax americana, suppone insieme la convergenza, ovvero l'identificazione totale, fra gli interessi americani e quelli dell'umanità intera. Sotto questa angolazione, gli Stati e i movimenti politici che si oppongono a questo principio di convergenza e d'identificazione, sono, per definizione, dei "ribelli", dei "paria" che vogliono male all'impero americano.

Dichiarare la guerra a questi ribelli diventa, per conseguenza, una missione sacra, al servizio dell'umanità e per la difesa della comunità internazionale. L'impero americano è così costantemente indotto a dichiarare una crociata permanente e incessantemente ripetuta per l'avvento di un mondo "libero" e "democratico".

Qualche mese addietro, l'economista e pensatore francese Jacques Attali ha detto che la caratteristica dominante della nostra epoca era il crollo della civiltà occidentale e non a causa dello choc di questa civiltà contro le altre culture. Egli ironizza così sulla teoria del pensatore americano Samuel Huntington a proposito dello choc delle civiltà. In uno degli ultimi numeri della rivista americana di politica estera "Foreign Affaire", Attali conclude:" A dispetto dell'idea dominante secondo la quale l'economia di mercato e la democrazia si sono unificate per costituire un potente mezzo di sostegno e di sviluppo del progresso umano, bisogna costatare che questi due valori sono incapaci di garantire la sopravvivenza della civiltà umana. Essi (i valori n.d.t.) sono pieni di contraddizioni e di lacune. E se l'Occidente, e alla sua testa gli USA che si sono autoproclamati leader di questo Occidente, non si affretta a riconoscere gli errori e le crisi dell'economia di mercato e della democrazia, la civiltà occidentale non tarderà a decomporsi progressivamente prima di autodistruggersi".

                                                                                  Subhi HADIDI


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Numeri 9 e 10
novembre - dicembre 2000


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