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(PUNTI DI VISTA)

  1. LA SICILIA NEL MEDITERRANEO
    di Francesco Renda*
  2. L'ACQUA NEI PAESI DEL MEDITERRANEO
    di Eugenia Ferragina

"IL MEDITERRANEO E L'EUROPA ORIENTALE"

L'EUROPA ORIENTALE HA QUALCOSA DA CERCARE NEL MEDITERRANEO

(Brani tratti dall'intervista rilasciata da Agostino Spataro ad Attila Seres del "Nepszabadsag", il più diffuso quotidiano ungherese del 23/12/00)

I Paesi dell'Europa orientale non dovrebbero eliminare i rapporti ancora esistenti, e risalenti all'era socialista, con gli Stati rivieraschi del Mediterraneo- ha detto a Nepszabadsag Agostino Spataro- già deputato italiano e direttore del Centro Studi Mediterranei di Agrigento- non sarebbe giusto favorire la contrapposizione fra Paesi dell'Europa centro-orientale e del Mediterraneo nella corsa verso l'adesione all'Unione Europea.

L'U.E., seguendo l'esempio degli USA, ha cominciato ad occuparsi più seriamente delle regioni al di fuori delle sue frontiere.

Secondo Spataro, l'espansione dell'Unione Europea verso i Paesi dell'Est è stata accentuata, dopo essersi resi conto del pericolo al quale si andava incontro con l'isolamento dell'Europa.

SINTESI DELLA COMUNICAZIONE DI AGOSTINO SPATARO

Al seminario promosso dal Centro Studi Europei dell'Università di Szeged (Ungheria)  24 Novembre 2000

Trovo molto interessante il tema al centro di questa Conferenza poiché consente di affrontare la problematica mediterranea da un angolo visuale per molti versi inedito, come quello dell'Europa centrale e orientale. 

Naturalmente, questo discorso dovrebbe essere continuato e approfondito nei suoi diversi aspetti ed implicazioni per favorire lo scambio e la conoscenza fra queste due realtà culturalmente diverse, ma entrambe impegnate a costruire un nuovo sistema di relazioni con l'Unione Europea.

E' necessario favorire la conoscenza diretta fra queste due aree anche per superare talune diffidenze insorte dalle preoccupazioni per una certa concorrenza che, inevitabilmente, si è venuta a creare in rapporto con gli sviluppi, non sempre coerenti, della politica europea.

Personalmente penso che bisogna promuovere una rete di contatti e di esperienze dirette fra enti, istituti ed organismi dei Paesi dell'Europa centrale ed Orientale (PECO) e dei Paesi Terzi Mediterranei (PTM).

Perciò l'iniziativa di oggi e il lavoro svolto dal Centro Studi Europei, diretto dal prof. Laszlò J. Nagy, sono davvero lodevoli ed anticipatori di un progetto a più vasta scala.

Con questa relazione cercherò di svolgere alcune considerazioni relative agli sviluppi del processo iniziato a Barcellona nel 1995 per il partenariato euro-mediterraneo fra U.E. e 12 PTM  e tentare d' individuare possibili ipotesi di collaborazione fra i PECO e i PTM, nel quadro dell'attuale politica di allargamento e di partenariato promossa dall'Unione Europea.

Per quanto riguarda il primo aspetto, penso che i progressi compiuti sono molto al di sotto delle aspettative: il dialogo fra le diverse parti stenta ad affermarsi e soprattutto non ha prodotto risultati politici ed economici significativi.  Sul partenariato euromed pesa innanzi tutto un'anomalia di carattere politico e giuridico: un vero dialogo non esiste, il discorso va avanti a senso unico. E' l'UE a dettarne le regole, poiché essa è il soggetto erogatore degli aiuti finanziari.

Tale anomalia ha pesato sulla recente (15 e 16 novembre 2000) Conferenza Ministeriale di Marsiglia, nella quale, oltre all'assenza di Siria e Libano per motivi legati alla drammatica situazione di repressione dei Territori palestinesi, si è potuta rilevare la permanenza di una difficoltà  di fondo che ostacola il raggiungimento di una comune base politica fra i 27 Paesi che hanno sottoscritto la Dichiarazione di Barcellona e che dovrebbe sostanziarsi nell'adozione di una"Carta per la pace e la stabilità" nel Mediterraneo.

In realtà, il bilancio di questi primi cinque anni di partenariato euromediterraneo non può considerarsi entusiasmante, anzi molti osservatori e specialisti lo considerano deludente.

D'altra parte, si doveva prevedere che la strada intrapresa a Barcellona, seppure giusta nella sua intuizione, non sarebbe stata di agevole percorso.

Già a quel tempo, molti problemi furono evidenziati, ma il clamore celebrativo, orchestrato intorno all'avvenimento, spense le rari voci (fra queste noi) che tentarono di mettere in luce talune incongruenze d'impostazione, come- ad esempio- l'eccessiva preponderanza del fattore mercantile e il velleitarismo di alcuni obiettivi politici, poco commisurati rispetto alla realtà dei 12 PTM.

Altro grave errore è stato quello di avere acconsentito di estrapolare la questione palestinese dal contesto negoziale dell'ONU e di delegare interamente all'Amministrazione USA la ricerca di una soluzione negoziata della principale "questione politica" che attanaglia lo scenario mediterraneo: ovvero il conflitto che, da oltre mezzo secolo, contrappone israeliani e palestinesi e arabi della regione.

Da Oslo ad oggi, sono trascorsi 7 anni e non si è risolto un bel nulla: la rivolta divampa nei Territori col suo tragico bilancio di giovani vite umane spezzate da una repressione israeliana ottusa quanto spietata.

Altro problema presente è costituito dalla mancata partecipazione della Libia al processo di Barcellona. Non sappiamo esattamente come stiano le cose a riguardo. Pare che la Libia, subito dopo la revoca dell'embargo dell'ONU, abbia presentato una richiesta formale di adesione, successivamente ritirata giacchè ritenuta non pienamente rispondente agli acquis di Barcellona.

Anche su questo punto l'opinione pubblica ha il diritto di conoscere la vera natura e le ragioni della "ritrosia" libica ad accettare le condizioni contenute nella dichiarazione di Barcellona.

Tuttavia, il ministro degli esteri libico ha partecipato, nella qualità di invitato speciale, alla recente conferenza ministeriale di Marsiglia, la qualcosa lascia supporre che nonostante le attuali difficoltà di rapporto, prima o poi la Libia entrerà a far parte- com'è giusto- del club del partenariato euromed.

Dal versante balcanico, specie oggi dopo la caduta del regime di Milosevic, si ripropone la questione (fino ad ora rinviata) del ruolo e dell'eventuale adesione dei Paesi rivieraschi dell'Adriatico nel sistema del partenariato euro-mediterraneo. Si tratta di Paesi a tutti gli effetti mediterranei, ormai quasi tutti usciti da una drammatica fase di transizione, destinati a pesare sempre di più negli equilibri economici e politici del Mediterraneo, ai quali non si potrà negare la possibilità di partecipare ad uno sforzo comune di pacificazione, in una prospettiva di sicurezza e di prosperità condivise.

Infine, un interrogativo che ogni tanto affiora: i paesi del Mar Nero sono da considerare mediterranei e, in quanto tali, associabili nella media prospettiva al processo di Barcellona?

Personalmente penso che anche il Mar Nero è Mediterraneo e non solo fisicamente. Attualmente, non sono ancora maturate le condizioni politiche ed economiche per avviare una riflessione ed eventualmente una trattativa fra UE e i paesi del Mar Nero, tuttavia, sono convinto che, prima o poi, la strategia dell'euro partenariato dovrà oltrepassare lo stretto dei Dardanelli e coinvolgere tutti gli Stati rivieraschi del Mar Nero.

Per altro, oltre alla Turchia, che già fa parte di euromed e aspira addirittura ad entrare nella UE, gli altri paesi rivieraschi quali Bulgaria e Romania, mediante il programma Phare, hanno già rapporti con l'Unione Europea, in vista dell'allargamento.

I processi di globalizzazione in atto hanno sconvolto gli assetti di potere tradizionali e la geografia economica del pianeta. Nel prossimo secolo, saranno le grandi aggregazioni multi e sovra nazionali a decidere il corso dello sviluppo. L'Europa, pur essendo oggi la prima potenza commerciale del pianeta, rischia di rimanere schiacciata nel confronto con altre aree ed entità economiche, in particolare con la cosiddetta "area del Pacifico" che si candida a divenire il nuovo centro di attrazione dello sviluppo mondiale per il XXI° secolo.

Nei prossimi anni, si potranno verificare  sconvolgimenti davvero imprevedibili sul mercato globale mondiale, dovuti all'ingresso, a pieno titolo, di paesi come la Cina e l'India. Se l'Europa vuole garantirsi un futuro di benessere nella pace e nella sicurezza, dovrà rafforzare il processo di unione politica e monetaria, attenuare gli squilibri sociali e territoriali interni, proseguire la politica di allargamento su basi continentali, dall'Atlantico agli Urali, e al contempo cercare di coinvolgere, seppure con la necessaria gradualità, tutti gli Stati dell'area mediterranea e delle regioni contigue per dare vita ad una nuova entità politico-economica e culturale che si faccia carico dei problemi dell'Africa, un continente che non possiamo abbandonare alla deriva, in preda alla fame, alle malattie e alle insanabili guerre fratricide.

Per realizzare un disegno di tale ampiezza e complessità, l'Unione Europea avrebbe bisogno di una vera e propria strategia a lungo termine e non di una politica a corto respiro.

L'UE deve sapere volare in alto, sicuramente al disopra dei gretti interessi di mercanti e di bovari ai quali la Comunità ha  garantito redditi cospicui, per riceverne in cambio la distruzione di ingenti risorse agroalimentari, la manipolazione genetica e nutrizionale da cui è nata la cosiddetta "mucca pazza", che rappresenta un il rischio gravissimo per la salute dei nostri cittadini.

Nella fase attuale e relativamente al processo di Barcellona, dobbiamo rilevare che tale processo non marcia al ritmo auspicato e si trova in una situazione di sostanziale impasse, denunciata anche da esponenti autorevoli della politica europea, come il ministro degli esteri francese, Hubert Vedrine, che la settimana scorsa ha presieduto la Conferenza ministeriale euromed di Marsiglia.

Secondo Vedrine, "nel settore politico le cose avanzano lentamente, il funzionamento del programma MEDA lascia a desiderare e deve essere rivisto, mentre resta modesto il numero degli accordi di associazione in vigore (solamente tre)".

Questi ed altri temi erano nell'agenda di Marsiglia, ma le risposte venute dal summit dei Ministri degli esteri sono state aleatorie, quasi tutto è stato rinviato ad altro momento.

Non è stata nemmeno adottata la "Carta per la pace e la stabilità" che dovrebbe essere la base, comune e condivisa, per avviare programmi d'incisiva riforma politica e sociale nei PTM.(partecipazione democratica, pluralismo politico, tutela dei diritti umani, miglioramento della condizione femminile, etc).

L'unica decisione importante è stata quella del rifinanziamento del programma MEDA 2, per il periodo 2000-2006, mediante lo stanziamento di 5,35 miliardi di euro (molto meno di quanto proposta dalla Commissione: 6,7 mld di euro), circa 2 miliardi in più rispetto al finanziamento di MEDA 1 (3,5 miliardi di euro).

Ai finanziamenti diretti per MEDA 2, bisogna aggiungere 6,4 miliardi di euro per prestiti BEI.

Naturalmente, non basta decidere il finanziamento, bisogna anche sapere spendere.

Col MEDA 1 si è riusciti a spendere soltanto il 26% della spesa programmata. La qualcosa rivela seri problemi di funzionamento dei meccanismi preposti, sia nei PTM sia in sede di Commissione, all'attuazione dei programmi. Perciò, a Marsiglia si è posto il problema della modifica del Regolamento di attuazione del MEDA, per rendere più veloce e proficuo l'investimento in favore dei 12 Paesi associati nel partenariato euro-mediterraneo.

Infine, un solo accenno alla questione della "zona di libero scambio" euromediterranea che dovrebbe essere creata entro il 2010 e alla quale, probabilmente, aderiranno i Paesi dell'Europa centro-orientale che nel frattempo avranno aderito alla UE. Penso principalmente a Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia.

Si verrà a creare un nuovo mercato di circa 700 milioni di persone all'interno del quale potranno circolare liberamente beni, capitali e servizi (un po' meno gli uomini); gli effetti potranno essere positivi, ma anche negativi, soprattutto per i Paesi meno sviluppati e perciò più dipendenti dalle economie forti dell'UE.

In questa "zona di libero scambio" dovranno confluire l'UE, che rappresenta circa il 40% del commercio mondiale; e i 12 PTM che rappresentano soltanto il 3% del commercio mondiale; i quali orientano il 51% del loro export e il 53% del loro import, mentre il commercio fra i PTM arriva a circa il 6%.

La zona di libero scambio aiuterà il processo di cooperazione, di partenariato euromediterraneo?

La risposta a questo interrogativo non è facile a darsi. Senz'altro vi sono in questo progetto elementi positivi, di ristrutturazione, d'innovazione e di liberalizzazione, ma vi potrà essere anche un rovescio della medaglia, nel senso di un'accresciuta dipendenza di questi Paesi dal mercato europeo.

Già oggi alcuni paesi del Maghreb quali Tunisia e Marocco che hanno sottoscritto accordi di libero scambio con l'UE, accusano difficoltà nel settore delle entrate doganali.

Nella prospettiva della creazione della zona di libero scambio si pone il problema della concorrenza, soprattutto per alcune produzioni manifatturiere, fra PECO e PTM che andrà a svantaggio reciproco e a colpire talune produzioni delle regioni mediterranee del sud Europa, in particolare di Spagna, Portogallo, Italia e Grecia.

Perciò, penso che sarebbe utile cominciare a studiare tali implicazioni e conseguenze, avviando contatti e rapporti di collaborazione fra queste realtà in vista della realizzazione della zona di libero scambio.

I Paesi dell'Europa centro-orientale, che nel recente passato hanno intessuto una trama di relazioni politiche ed economiche con alcuni PTM, ( penso alla Siria, all'Algeria, alla Libia, all'Egitto, al Libano, etc.) dovrebbero valorizzare questo patrimonio di conoscenze e di relazioni e proiettarlo nella nuova dimensione politica e nella prospettiva europeistica che stiamo costruendo.

                                                              Agostino Spataro

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L'AVVENIRE DEL PROCESSO DI PACE IN M.O.
(di Mohamed Sidi-Ahmed in "Al-Ahram-Hebdo)

Il fallimento del processo di pace ha provato che i suoi obiettivi dichiarati differivano radicalmente dagli obiettivi reali. L'obiettivo dichiarato era quello di creare uno Stato palestinese a fianco di uno Stato ebraico. In realtà si è trattato di creare uno Stato che non corrisponde affatto alle aspirazioni palestinesi all'autodeterminazione.

Al contrario, gli si vuole affidare il compito di contenere la questione palestinese, eliminando il "carattere" palestinese che costituisce una minaccia alla sicurezza d'Israele.

Paradosso! L'idea essenziale nella panoplia di "idee" di Clinton per risolvere la questione palestinese era di abolire il diritto al ritorno in Israele. Ossia, annullare la risoluzione 194 dell'Assemblea generale dell'ONU, che rappresenta la legittimità internazionale a questo riguardo.

E ciò al fine di preservare il carattere giudeo dello Stato ebraico.

Inoltre, Clinton era preoccupato di non toccare la dichiarazione di Balfour che promette di creare un foyer nazionale per gli ebrei in Palestina, ossia la rivendicazione stessa dei sionisti. E se si accetta il ritorno di un numero limitato di rifugiati palestinesi in Israele, ciò sarà per ragioni umanitarie come il ricongiungimento delle famiglie separate, ciò è una concessione non un diritto.

Tuttavia, la risoluzione 194 sancisce la scelta fra il ritorno e l'indennizzo. Il solo volere restringere questo diritto all'indennizzo costituisce una violazione flagrante della risoluzione.

Da notare che Clinton sopprime il diritto dei Palestinesi al ritorno, allorché "la legge del ritorno" israeliana permette ad ogni ebreo che giunge in Israele, quale che sia la sua nazionalità o il suo luogo di nascita, di diventare cittadino israeliano.

Come pretendere che esista una pari opportunità?

L'idea essenziale di Clinton è di basare la risoluzione del conflitto sul rafforzamento dell'identità ebraica d'Israele per evitare che possa confondersi o perdersi all'interno del mondo arabo. In contropartita, le sue idee svelano un desiderio evidente di sfigurare le caratteristiche dell'entità palestinese e di contenerla nell'ambito di una sovranità ristretta, difettosa e disarmata.

Tuttavia, è difficile separare le due entità, ebraica e palestinese, completamente concatenate.

Barak stesso aveva riconosciuto che la separazione è "penosa", il che significa implicitamente che essa può condurre al ricorso eccessivo alla violenza.

Questo processo è irrealizzabile anche per cause strutturali. Citiamo la minoranza araba in Israele che acquista sempre piu' importanza al punto di occupare 1/10 dei seggi della Knesset.

Esiste anche il problema delle colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gaza alle quali Israele non vuole rinunciare. E per evitare lo smantellamento delle colonie, Clinton ha deciso di scambiare il 5% dei territori della Cisgiordania contro l'1% al 3% dei territori d'Israele.

Queste difficoltà possono indurre Israele a adottare una contraria? Altrimenti detto potrà accettare anche in un futuro lontano l'idea di uno Stato unificato inglobante, su un piano d'uguaglianza, ebrei e arabi. Esistono dei sostenitori di questa idea fra gli arabi d'Israele, segnatamente fra quelli che sono indecisi fra la loro lealtà verso il nazionalismo arabo e le istituzioni dello Stato ebraico del quale fanno parte.

Secondo loro, esiste una possibilità di lotta simile a quella condotta contro l'apartheid in Africa del Sud o dai neri americani, di cui Martin Luther King, per i diritti civili negli USA. Ma questa idea pone problemi ad Israele: esiste una contraddizione fra il preteso impegno d'Israele alla democrazia o ai diritti civili e l'identità ebraica dello Stato ebraico che si contrappone all'idea di cittadinanza e di uguaglianza dei cittadini.

Alla luce di queste difficoltà, il fallimento della trattatiova nella loro formula tripartita (americana, israeliana e palestinese) potrà indurre l'Amministrazione Bush ad allontanarsi dal processo di negoziato?

Bush potrà pensare che l'eccessivo contributo di Clinton al processo ha nociuto agli Stati Uniti invece che favorirli? Cosa ci si può attendere dalla nuova Amministrazione americana e da Sharon che, secondo tutte le previsioni, sarà il prossimo premier israeliano?

Bush rinuncerà alla formula tripartita dei negoziati? Lascerà la porta aperta all'Europa affinché essa possa giocare un ruolo piu' importante? E la Russia?

Tutto ciò è improbabile, segnatamente perché gli USA hanno nella regione grossi interessi, in primo luogo il petrolio. E non dimentichiamo le strette relazioni che legano la nuova Amministrazione agli interessi petroliferi. Aggiungiamo che il tasso di crescita dell'economia americana che comincia a scendere e gli andamenti dei corsi del petrolio devono necessariamente preoccupare l'Amministrazione Bush e spingerla ad interessarsi del Vicino Oriente quale che sia il destino dei negoziati israelo-palestinesi...

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LA SICILIA NEL MEDITERRANEO
di Francesco Renda*

La storia della Sicilia intesa come momento e parte di un tutto porta anche a rivalutare la sua mediterraneità, qualifica non sempre tenuta nella dovuta considerazione, ma oggi destinata ad avere un crescente valore costitutivo.

La mediterraneità è connotazione prevalente di tutta quanta la storia siciliana naturalmente con dati positivi e negativi in rapporto ai tempi. Senza ripetere quanto già detto a proposito delle civiltà e dei sistemi politici prevalenti nel Mediterraneo, valga a conferma la storia religiosa.

Il Mediterraneo, com'è noto, è l'area religiosa senza dubbio più fertile e prosperosa della storia. E' infatti il luogo ove sono sorti e si sono affermati i tre grandi monoteismi oggi esistenti e prevalenti nel mondo, l'ebraico, il cristiano e l'islamico.

Anche della Sicilia si può dire qualcosa di analogo, giacchè lungo il corso dei secoli nell'isola sono stati presenti e largamente praticati sia il monoteismo cristiano nella duplice versione romana e bizantina sia il monoteismo ebraico sia il monoteismo islamico.

Il cammino religioso isolano è stato dunque partecipe e beneficiario della ricchezza spirituale propria della civiltà cristiana, della civiltà ebraica e della civiltà islamica, ma è stato anche segnato dai loro laceranti contrasti, nell'isola però vissuti in manbiera e tempi diversi che in altre regioni mediterranee.

In una storia comparata, le peculiarità isolane emergono con maggiore evidenza. Dell'influenza islamica, intesa come altra rispetto alla cristiana, la Sicilia risente meno della Spagna, meno della Grecia, meno di altrev regioni balcaniche. E' la prima infatti che fa ritorno all'Occidente cristiano.

La riconquista normanna, protagonista di quel ritorno, avviene agli inizi del secondi millennio.

La Spagna, invece, diventa tutta cristiana agli inizi del secolo XVI. La Grecia si libera dal giogo turco agli inizi del secolo XIX. I Balcani sono ancora oggi parte cristiani cattolici, parte cristiani ortodossi e parte islamici.

Quanto all'influenza ebraica, l'isola ne vive la storia come la Spagna, senza però uguagliarne la grandezza. Il giudaismio iberico è infinitamente più elevato del giudaismo siciliano. Sotto il profilo numerico, tuttavia, in prioporzione, gli ebrei di Sicilia sono il doppio o quasi il doppio dei sefarditi spagnoli, e la loro storia non si chiude con l'espulsione del 1492, ma prosegue prima per oltre cinquanta anni col marranismo generato da quella espulsione e poi a tempo indeterminato fino ai nostri giorni col marranismo occulto che si tramanda di generazione in generazione con le forme nicomediche più varie.

Quanto alla presenza cristiana, infine, la chiesa siciliana si distingue dalle altre chiese romane per il governo amministrativo e disciplinare autocefalo che al momento della riconquista normanna le viene concesso mediante la legazia apostolica che fa del re di Sicilia, in quanto legatus natu del papa, cioè legate del papa in quanto re di Sicilia, il capo istituzionale della chiesa siciliana.

Una condizione simile viene poi riconosciuta anche al re di Spagna ma solo limitatamente al governo della Santa Inquisizione.

Quel che succederà o potrà verificarsi sul piano religioso futuro non è dato sapere. Ma non è senza rilievo la crescente presenza degli emigrati extracomunitari che nel fatto vuol dire crescente diffisione della religiosità islamica. Il ruolo sul momento subalterno di tale emigrazione non altera il quadro d'assieme della geografia religiosa isolana. Ma i mutamenti sono anche di ordine economico e sociale, e più ancora culturale, ossia di relazioni, di intese, di scambi pubblici e privati, i cui segni già cominciano a farsi insistenti a vista d'occhio.

Sotto il profilo puramente storiografico, il proposto canone d'intendere e rappresentare la storia siciliana anche come momento e parte della storia mediterranea consentirà certamente di seguire e rappresentare nel loro pieno significato i semprte più numerosi e più significativi avvenimenti siculo-mediterranei di questo iniziale terzo millennio.

Ma, proprio per dare concretezza a questo modo nuovo d'intendere la storia siciliana, certramente sarebbe auspicabile che di Palermo si dicesse che non è solo città italiana né solo città europea, ma anche città mediterranea. Palermo mediterranea lo è sempre stata in senso geografico. Ma ora è bene che lo diventi anche in senso più generale, come città che sente e che vive la sua vicinanza anche con Atene, anche con Ankara, con Gerusalemme, con Il Cairo, con Tripoli, con Tunisi, con Algeri, e naturalmente, con Barcellona, con Marsiglia, con Cagliari ed altre città mediterranee spagnole, francesi, italiane.

Sarebbe davvero una fortuna se, come al tempo dei Normanni si costruirono templi e palazzi di straordinaria bellezza col concorso degli architetti, degli operai e degli artigiani musulmani, anche oggi da subito si potesse avviare lo sviluppo dell'isola grazie al risveglio congiunto degli altri paesi mediterranei sia europei che nordafricani e mediorientali. Essere momento e parte della storia mediterranea comporeta di non aspettare che siano solo gli altri a prendere l'iniziativa ed a decidere il da fare.

Ma per realizzare un mutamento comportamentale di takl genere occorre un mutamento di mentalità che coinvolga la società siciliana nel suo insieme con alla testa una classe dirigente rinnovata.

Il problema è tutto qui. Per molti secoli la Sicilia è stata una regione di periferia e la sua classe dirigente ne ha rispecciarto le caratteristiche formandosi una mentalità di periferia né poteva far diversamente, stante che il suo compito era limitato a gestire quanto era possibile in una regione di periferia.

Anche se le mentalità sono difficili da cambiare, il futuro della Sicilia è affidato alla speranza che nell'isola, in sostituzione della mentalità di periferia ancora dominante nella cultura popolare e in quella alta, si fiormi una nuova mentalità che faccia tesoro della mutata situazione. Adesso è prioprio il caso di ripetere il detto antico: suae quisque fortunae faber.

Oggi è la Sicilia ad essere artefice del suo futuro. Ed è sperabile che in tal senso dia il suo valido contributo anche la storiografia.                                                               

* Per gentile concessione dell'Editrice Sellerio, pubblichiamo questo brano tratto da "Sicilia e Mediterraneo- La nuova geopolitica" (Palermo, aprile 2000- pagg. 86, £. 15.000) del professor Francesco Renda. Ci conforta il fatto che anche uno storico di valore come Renda abbia colto la "mediterraneità" della Sicilia sulla quale andiamo insistendo, con pochi altri e con scarsa fortuna, da circa 30 anni.  (a.s.)

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L'ACQUA NEI PAESI DEL MEDITERRANEO
di Eugenia Ferragina *

La dotazione di risorse idriche può essere considerata uno dei fattori essenziali che condizionano il benessere di una popolazione, nonché una risorsa di base indispensabile all'attività economica. In particolare nel Mediterraneo, essa costituisce un bene scarso e inegualmente distribuito.

Zone con indici di pluviometria elevati si contrappongono ad ampie zone quasi o completamente desertiche. La violenza delle precipitazioni invernali facilita i fenomeni di erosione rendendo difficile il governo e lo stoccaggio delle risorse durante i mesi estivi, caratterizzati da temperature elevate e da forti indici di evapotraspirazione.

L'acqua ha, pertanto, profondamente influenzato nel corso della storia la localizzazione degli insediamenti umani sul territorio, concentrati lungo i fiumi e nelle vallate, i percorsi commerciali, segnati dalla presenza delle oasi, la stessa organizzazione politica di quelle che sono state definite le grandi civiltà dell'acqua.

Le prime società organizzate nel bacino del Mediterraneo hanno, infatti, codificato il suo uso, come nel caso del codice assiro-babilonese di Hammurabi che conteneva una parte dedicata alla distribuzione ottimale delle risorse idriche e dell'Egitto dei faraoni, in cui le imposte venivano elevate in funzione del livello di piena del Nilo.

Non bisogna, inoltre, dimenticare che un tribunale dell'acqua esisteva a Valencia sin dal 960, mentre l'antica tradizione berbera d'ingegneria idraulica e le grandi opere di canalizzazione introdotte dagli arabi e divenute patrimonio comune ad ampie aree del Mediterraneo rimangono un esempio interessante di valorizzazione delle risorse in contesti aridi.

La situazione idrica all'interno dell'area si è andata rapidamente deteriorando negli ultimi decenni in conseguenza dell'alto tasso di crescita della popolazione, che ha agito sia direttamente, attraverso un aumento del fabbisogno idrico, sia indirettamente come crescita della domanda di prodotti agroalimentari.

La moltiplicazione dei bisogni ha, quindi, determinato una crescente competizione tra settori economici in termini di accesso alle risorse, alimentando fenomeni di conflittualità sociale. In questo contesto, lo Stato si è trovato a svolgere un ruolo non facile di mediazione tra interessi e obiettivi contrastanti.Le politiche idriche variano in funzione del livello di sviluppo economico. Nei Paesi più avanzati le politiche idriche hanno subito negli ultimi anni una notevole evoluzione, passando da una gestione meramente quantitativa ad una gestione qualitativa improntata alla salvaguardia della risorsa e al riconoscimento dei principi dello sviluppo sostenibile.

Nella riva Sud ed Est del Mediterraneo una gestione più accorta delle risorse stenta ad affermarsi in ragione dell'urgenza dei bisogni e delle molteplici pressioni cui il settore è sottoposto.

In questi Paesi l'acqua appartiene allo Stato, il quale si occupa del trattamento e della distribuzione attraverso organismi pubblici che gestiscono il servizio idrico sia urbano che rurale.

Recentemente, a fronte della necessità di moltiplicare gli investimenti nel settore, lo Stato ha fatto sempre più spesso ricorso ai privati, essenzialmente per il trattamento delle acque e la distribuzione nelle aree urbane. Numerosi progetti sono stati realizzati da imprese straniere con esperienza riconosciuta nel settore, prime fra tutte le francesi, seguite da quelle inglesi e tedesche.

Mentre, però, le imprese private intervengono facilmente nell'approvvigionamento idrico urbano e nel trattamento delle acque reflue, più difficilmente operano nel settore irriguo, in ragione dei problemi che sorgono nell'attribuzione di un prezzo all'acqua impiegata in agricoltura.

Il problema della tariffazione incide in maniera determinante su una corretta gestione delle risorse idriche. I governi dell'area hanno, infatti, condotto in passato politiche tendenti a rendere quasi gratuito l'uso dell'acqua in agricoltura, alimentando in tal modo fenomeni di spreco e di deterioramento sul piano qualitativo dell'acqua.

Passando ad analizzare i problemi idrici a scala regionale, il dato che emerge in maniera preoccupante è non tanto quello della scarsità, quanto piuttosto quello dell'ineguale distribuzione delle risorse, sia dal punto di vista spaziale che temporale. Ad aree eccedentarie si contrappongono aree afflitte da gravi problemi di aridità, mentre situazioni di deficit si verificano solo in alcuni periodi dell'anno, quando le scarse precipitazioni estive si associano alla mancanza di punti di stoccaggio dell'acqua.

Il deficit idrico nasce, dunque, da un'incapacità di adattamento a specifiche situazioni areali, nonché dalla mancanza di progettualità in grado di operare un passaggio di scala, da quello nazionale a quello regionale e internazionale.

Il legame esistente tra pace, sicurezza, degrado ambientale e disponibilità idrica è evidente in numerose parti del mondo, in particolare quelle in cui la scarsità si associa alla presenza di bacini idrici internazionali.

L'elevato grado d'interdipendenza che esiste nell'uso dell'acqua favorisce l'emergere di aree "idroconflittuali" che alimentano lo sfruttamento unilaterale ed il deterioramento della risorsa.

Solo la cooperazione nel settore idrico può arginare la guerra per l'acqua favorendo scambi di tecnologie, know how e strumenti finanziari.

L'acqua in quanto risorsa strategica, può, dunque, trasformarsi da vincolo a catalizzatore della cooperazione regionale e diventare un grande volano dello sviluppo e dell'occupazione.

* Ringraziamo la dott/ssa Eugenia Ferragina, ricercatrice presso l'Istituto di Ricerche sull'Economia del Mediterraneo del CNR di Napoli, per questo suo pregevole contributo tratto dalla Introduzione a "L'acqua nei paesi mediterranei- Problemi di gestione di una risorsa scarsa", Edizioni del Mulino, Bologna, 1998. Pensiamo di continuare ad occuparci della questione dell'acqua nell'area mediterranea poiché riteniamo che sarà questa la principale incognita che peserà sul futuro, speriamo pacifico, dei popoli del Mediterraneo.


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Numero 11
gennaio 2001

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