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( ANALISI )


La finestra di opportunità: la diplomazia giordana e il processo di pace, 1984-86

Gli anni dal 1984 al 1986 videro il massimo sforzo diplomatico da parte della Giordania negli anni Ottanta per giungere ad una soluzione della questione palestinese.

Tre fattori contribuirono a creare quella che venne considerata in Giordania una vera e propria "finestra di opportunità" nel processo di pace: l'indebolimento dell'OLP e di Arafat dopo gli scontri interni in Libano e la nuova espulsione, stavolta per mano siriana, del leader palestinese dal Libano; le elezioni israeliane del 1984 che, anche se non diedero la vittoria laburista attesa in Giordania, portarono alla creazione di un governo di unità nazionale guidato da Shimon Peres nel periodo 1984-1986; infine la rielezione con una vasta maggioranza di Ronald Reagan, senza l'appoggio delle lobby ebraiche, sembrava promettere un maggiore impegno e una maggiore determinazione americana in Medio Oriente.

La prima mossa giordana nel rilancio dello sforzo diplomatico verso una soluzione della questione palestinese fu la riconvocazione del Parlamento giordano. Il Parlamento giordano comprendeva rappresentanti eletti su entrambe le rive, ed incarnava quindi le pretese giordane riguardo la West Bank; per questo motivo in osservanza con la decisione di Rabat era stato sospeso nel 1974.

Secondo il governo giordano la sua riconvocazione nel gennaio 1984 non aveva alcuna connessione con la situazione internazionale e con la politica estera giordana, ma rispondeva essenzialmente a necessità interne. Come spiega Zeid Rifai " [la decisione] mirava a risolvere un problema costituzionale che ci trovavamo ad affrontare; secondo la nostra costituzione si potevano avere elezioni generali [solo] in tutto il regno, ed essendo una parte del regno sotto occupazione non si potevano convocare elezioni generali, non potendo avere elezioni solo in una parte del regno. In questo modo esisteva il problema che alcuni membri del Parlamento stavano invecchiando, e alcuni erano morti, e temevamo di perdere il quorum per riconvocare il Parlamento precedente. Se avessimo raggiunto questo punto non avremmo potuto considerare gli emendamenti alla costituzione necessari. Si sarebbe così determinata una vera e propria crisi costituzionale" [1] . Il Parlamento infatti fece i necessari emendamenti costituzionali che prevedevano la possibilità di elezioni suppletive per sostituire i membri deceduti del Parlamento e, in risposta all'occupazione israeliana della West Bank, la possibilità di far eleggere i membri sostitutivi della West Bank da parte del Parlamento stesso.

Anche se, quindi, il governo giordano dipingeva la decisione di riconvocare il Parlamento come indipendente da ogni considerazione esterna, essa non poteva non assumere un significato profondo nei confronti dell'OLP e di Israele. Da una parte, come fa notare Emile Sahliyeh, la riconvocazione del Parlamento rispondeva alla situazione determinata dalle "lotte interne all'OLP e [dalla] crescente possibilità che l'organizzazione cadesse sotto l'egemonia completa della Siria e dei suoi alleati radicali palestinesi" [2] ; dall'altra la Giordania, in questo modo, segnalava a tutte le parti la determinazione giordana a rilanciare il processo di pace, e in particolare segnalava ad Israele e Arafat che la Giordania, anche se continuava ad aderire alla decisione di Rabat, continuava ed intendeva continuare a svolgere un ruolo importante e a nutrire interessi fondamentali nella West Bank.

La seconda iniziativa giordana fu nei confronti dell'Egitto, con cui Amman ristabilì le relazioni diplomatiche nel mese di settembre del 1984. Nella visione giordana la presenza del peso egiziano era determinante per sostenere il mondo arabo nella questione palestinese e nel prolungato conflitto tra Iran e Iraq. Inoltre l'asse col Cairo serviva alla Giordania per bilanciare la minaccia crescente costituita dalla Siria, in assenza della protezione di un Iraq sempre più assorbito dal difficilissimo conflitto con l'Iran. Amman poi sperava di stabilire con le fazioni moderate dell'OLP vicine ad Arafat, con l'Egitto e con l'Arabia Saudita, un fronte arabo moderato che sostenesse nei confronti degli Stati Uniti, e delle crescenti forze radicali nel mondo arabo, il rilancio del processo di pace. Infine la morte di Sadat, e l'atteggiamento prudente adottato dal nuovo presidente egiziano Mubarak nei confronti di Camp David rendeva meno difficile per la Giordania la normalizzazione con l'Egitto.

La terza iniziativa fu il rilancio della coordinazione con l'OLP attraverso la proposta giordana di tenere il XVII CNP ad Amman. La situazione di Arafat era difficilissima: dopo esser ritornato l'anno precedente in Libano, il leader palestinese aveva dovuto affrontare una ribellione all'interno dell'OLP e della stessa Fatah da parte di fazioni vicine a Damasco e subire l'onta di una nuova espulsione dal Libano, stavolta per mano siriana. Emarginato a Tunisi, Arafat si trovava di fronte un OLP sempre più diviso in tre gruppi diversi: da una parte c'era la parte di Fatah rimasta fedele ad Arafat e il piccolo Fronte di Liberazione Arabo, di matrice filo-irachena, favorevoli ad un'iniziativa comune con la Giordania; un secondo raggruppamento, l'Alleanza Nazionale formata dai dissidenti di Fatah, dalle fazioni filo-siriane Saiqa e FPLP-GC, si opponeva ad Arafat e, appoggiata da Damasco, ne chiedeva la rimozione; infine l'Alleanza Democratica, composta dal FPLP, dal FDPLP, dai comunisti palestinesi e dal Fronte di Liberazione della Palestina, rifiutava la coordinazione con la Giordania, ma allo stesso tempo cercava di rilanciare un fronte comune all'interno dell'OLP. Nell'autunno 1984 Arafat "era posto davanti alla scelta se presiedere un movimento in via di disintegrazione o se convocare un nuovo CNP in assenza dell'unità [interna]" [3] ; la convocazione di un CNP avrebbe avuto l'importante vantaggio, dal punto di vista di Arafat, di ribadire e rafforzare la sua leadership personale messa sempre più in discussione dalle fazioni radicali filo-siriane, ridandogli così, in assenza delle fazioni radicali filo-siriane, lo spazio di manovra di cui aveva bisogno. L'unico stato disposto ad ospitare il CNP, in presenza delle pressioni e delle minacce della Siria che si opponeva alla convocazione, era la Giordania che vedeva nella debolezza della leadership di Arafat e nella moderazione di un OLP privo delle fazioni radicali un'occasione unica per portare avanti il processo di pace in una direzione favorevole agli interessi giordani; riunendo il CNP in Giordania, il governo giordano, spiega Emile Sahliyeh, "sperava di rafforzare la voce della moderazione all'interno dell'OLP e di indurre i leader dell'organizzazione ad adottare delle risoluzioni favorevoli al punto di vista giordano" [4] .

Come ricorda Taher al Masri, "[dopo] che Arafat fu espulso da [Tripoli] era in una posizione molto debole [.] Fece del suo meglio per rimettere insieme le forze palestinesi, ed il suo primo passo era convocare il Consiglio Nazionale Palestinese. Nessuna nazione araba a quel tempo accettò di ospitare il consiglio a causa principalmente dell'ostilità della Siria verso di esso; in secondo luogo in molti avevano delle cattive relazioni con Arafat allora; quindi re Hussein vide una buona opportunità per gettare un pezzo di legno all'OLP e ad Arafat che stavano annegando per aiutarli. E Arafat immediatamente afferrò quel pezzo di legno e venne a riva sano e salvo. In questo modo il XVII CNP si tenne ad Amman e re Hussein fece davvero molto per aiutare Arafat e l'OLP accettando di ospitare questo incontro in Giordania in un momento in cui la Siria era così ostile da minacciare un'azione militare contro Arafat e contro la Giordania durante il CNP. Ma tutto andò bene, e così la Giordania continuò a premere su Arafat perché raggiungesse un accordo con la Giordania, e, dato che avevamo dimostrato le nostre buone intenzioni nei suoi confronti, e gli avevamo fatto un grosso favore, avevamo bisogno di un passo ulteriore [da parte sua]. Il re credeva che se potevamo raggiungere un'intesa con i palestinesi, allora avremmo potuto raccogliere attorno ad essa altre nazioni arabe e andare dagli americani e dire che volevamo una conferenza internazionale. Il nostro scopo allora era giungere ad una conferenza internazionale" [5] .

Inaugurando il XVII Consiglio Nazionale Palestinese re Hussein delineò le linee dell'iniziativa giordana per il rilancio del processo di pace. Il punto di partenza avrebbe dovuto essere la relazione speciale tra Giordania e Palestina, "una relazione forgiata dai fattori puramente obiettivi della storia, della geografia e della demografia, che hanno posto i nostri paesi e i nostri popoli fratelli, dall'inizio del secolo, nella stessa barca di sofferenza e speranza, di interesse e  danno, di storia e destino [.] se per i nostri fratelli [arabi] la questione palestinese è una delle loro priorità nella politica estera e di difesa, per noi, come per voi, è la principale priorità [.] [la Palestina] è la soglia che gli invasori della Giordania dovrebbero attraversare, così come la Giordania è la porta per la liberazione della Palestina. La difesa della Palestina è la difesa della Giordania, come la difesa della Giordania è la difesa della Palestina" [6] ; la situazione drammatica nei territori occupati richiedeva per Hussein un'azione immediata per porre fine al processo di spoliazione araba intrapreso dalle forze israeliane di occupazione, e, spiegò Hussein al CNP, "la situazione internazionale è tale da considerare la possibilità di recuperare i territori occupati attraverso una formula giordano-palestinese, che richiede degli impegni da entrambe le nostre parti considerati dal mondo necessari per il raggiungimento di una composizione pacifica giusta ed equa" [7] ; la scelta che si poneva allora al CNP era se intraprendere la ricerca della pace e del ritorno dei territori occupati attraverso la collaborazione con la Giordania o se proseguire autonomamente; ad ogni modo, ribadiva Hussein, "la Giordania non parlerà per voi, anche se è del tutto pronta a unirsi a voi nell'affrontare il nostro comune destino [.] quale che sia [la vostra decisione] la rispetteremo perché giunge dal vostro stimato Consiglio, che è il rappresentante del popolo palestinese" [8] . Se però il Consiglio Nazionale Palestinese avesse accettato di coordinarsi con la Giordania, l'azione giordano-palestinese avrebbe dovuto passare per l'approvazione della risoluzione 242 come base per un accordo pacifico. "Il principio "territori per la pace"" spiegava Hussein "è la pietra miliare che dovrebbe guidarci in ogni iniziativa da presentare al mondo. Questo principio non è una precondizione, ma uno schema all'interno del quale i negoziati saranno condotti. Come tale, non è negoziabile" [9] . I negoziati avrebbero dovuto essere condotti all'interno di una conferenza internazionale, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, cui avrebbero partecipato i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e tutte le parti del conflitto, compreso, su di un piano di parità con tutti gli altri partecipanti, l'OLP.

L'idea della conferenza di pace costituiva un'innovazione rispetto al piano Reagan; essa mirava a coinvolgere l'Unione Sovietica e la Siria nell'iniziativa di pace, per evitare che la loro opposizione la facesse naufragare, così come era successo in precedenza col primo tentativo di coordinazione con l'OLP.

Il CNP non prese una posizione esplicita riguardo l'appello di Hussein per un'iniziativa coordinata che ponesse fine all'occupazione israeliana, ma lasciò al Comitato Esecutivo la responsabilità di agire a questo proposito.

Dopo tre mesi di negoziati la Giordania e l'OLP raggiunsero un accordo su un approccio comune al processo di pace siglato ad Amman l'11 febbraio 1985. L'accordo, richiamandosi al piano Fez e a tutte le risoluzioni ONU riguardanti la questione palestinese e alla relazione speciale tra la Giordania e la Palestina, delineava un approccio comune tra il governo giordano e l'OLP articolato in cinque punti [10] : ritiro totale dai territori occupati nel 1967 per una pace globale secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza; diritto all'autodeterminazione per il popolo palestinese da esercitarsi nel contesto di una confederazione giordano-palestinese; risoluzione del problema dei rifugiati palestinesi secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite; risoluzione della questione palestinese in tutti i suoi aspetti; convocazione di una conferenza internazionale con tutte le parti in causa e i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza cui avrebbe partecipato anche l'OLP all'interno di una delegazione comune giordano-palestinese.

L'accordo di febbraio secondo l'interpretazione giordana doveva permettere all'OLP attraverso la copertura giordana di partecipare a una conferenza di pace internazionale, dove l'azione comune araba avrebbe portato avanti il piano Fez per un ritiro totale delle forze israeliane dai territori occupati in cambio di una pace totale, mentre l'associazione dello stato palestinese con la Giordania avrebbe permesso l'espressione del diritto palestinese all'autodeterminazione in un contesto compatibile con il punto di vista americano espresso nell'iniziativa Reagan.

Forte di questo notevole successo, che poneva effettivamente l'OLP sotto la tutela giordana e delineava uno schema per la West Bank non molto dissimile dal piano federale di Hussein del 1972, e basandosi su di esso, la Giordania si impegnò in un notevole sforzo diplomatico che mirava a far cadere prima di tutto le preclusioni americane nei confronti dell'OLP per far poi convocare una conferenza internazionale.

Hussein ed Arafat presentarono l'accordo di febbraio al mondo arabo durante il summit a Casablanca tra il 7 e il 9 agosto; Siria, Libia, Yemen del Sud e Algeria boicottarono l'incontro rendendo impossibile il raggiungimento di un consenso arabo riguardo l'intesa raggiunta tra la Giordania e i palestinesi; in particolare la Siria era del tutto opposta all'accordo di febbraio, definito dal ministro degli esteri siriano Faruq al Sharaa un'alleanza tra la Giordania e l'OLP contro la Siria [11] . Il summit quindi, anche se non bocciò del tutto l'accordo, non lo sottoscrisse neppure, appoggiando le mosse giordano-palestinesi solo nei limiti in cui queste non avrebbero contraddetto lo spirito del piano Fez. Sia il principe ereditario Abdallah, che guidava la delegazione saudita, sia il sovrano marocchino Hasan sottolinearono l'importanza di non causare una frattura con la Siria; in particolare il mancato appoggio dell'Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo fu una notevole delusione per la Giordania. Taher al Masri ricorda che "a quel tempo erano presenti nel mondo arabo diverse forze in conflitto, e molti stati arabi non erano in favore del piano, in particolar modo la Siria [.] come ministro degli esteri portai una lettera del re, dopo la sigla dell'accordo, ai leader dei paesi del Golfo. Non accolsero del tutto il nostro punto di vista; non dissero mai "no, siamo contro un tale accordo", ma neppure lo sottoscrissero; e questi erano i paesi del Golfo, cioè gli alleati naturali di re Hussein" [12] . Anche l'Unione Sovietica, nonostante l'apertura che l'accordo faceva alla convocazione di una conferenza di pace dove Mosca avrebbe potuto giocare un ruolo importante, era contraria all'accordo, e a lungo rifiutò di incontrare la delegazione giordana che avrebbe dovuto illustrare a Mosca l'accordo raggiunto. Secondo quanto riporta Taher al Masri "l'Unione Sovietica era ostile all'accordo, perché credeva che essendo la Giordania [una forza] pro-Stati Uniti, se avessimo attirato a noi l'OLP, avremmo tolto la carta palestinese dal campo siriano e sovietico e l'avremmo consegnata agli Stati Uniti. [.] volevo vedere Gromyko ma lui non voleva incontrarmi. Riuscii a recarmi a Mosca all'interno di una delegazione araba per discutere la guerra Iraq-Iran e insistetti per vedere Gromyko, ma lui non volle vedermi. Dissi ai funzionari russi che non avrei lasciato Mosca fino a quando non avessi visto Gromyko e [allora] lo vidi, ma fu un incontro molto duro" [13] .

Anche gli Stati Uniti non approvavano del tutto la formulazione dell'accordo di febbraio. Ricorda George Shultz "l'accordo Hussein-Arafat appariva come un grande passo avanti, ma, temevo, avrebbe potuto diventare facilmente un grande passo indietro. Re Hussein aveva sentito che non avrebbe potuto avanzare senza Arafat a bordo, e così aveva messo Arafat di dietro mentre lui aveva occupato il posto del guidatore. Ma Arafat era un guidatore di dietro che intendeva prendere il volante al più presto" [14] .

Gli Stati Uniti non apprezzavano il riferimento a tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, dato che "alcune delle risoluzioni ONU riguardano il diritto palestinese all'autodeterminazione, il diritto al ritorno e lo status dell'OLP come solo e legittimo rappresentante del popolo palestinese; queste [risoluzioni] erano inaccettabili per Israele" [15] ; soprattutto gli Stati Uniti, però, avevano delle riserve riguardo l'idea della conferenza internazionale. Come spiega Zeid Rifai "gli americani a quel tempo non accettavano nessun ruolo sovietico nei negoziati ed erano contrari all'idea di una conferenza di pace, anche se la risoluzione 338 era un'idea americana e parlava di auspici appropriati. [Ma gli americani] decisero che quegli auspici appropriati non erano una conferenza di pace internazionale" [16] . L'amministrazione americana, soprattutto un'amministrazione come quella di Reagan portata ad interpretare ogni situazione all'interno dell'ottica del confronto globale con il blocco sovietico, non desiderava reintrodurre l'Unione Sovietica nell'equazione mediorientale. Inoltre anche Israele era contraria all'idea di una conferenza internazionale e legata all'idea di negoziati diretti e bilaterali. L'unico tipo di conferenza internazionale accettabile per gli Stati Uniti e per Israele era una conferenza, sul modello di Ginevra, con funzioni essenzialmente cerimoniali e non sostanziali, che fornisse la copertura per dei negoziati bilaterali. George Shultz ricorda che "mi sentivo nelle ossa che l'idea di Hussein riguardo una conferenza internazionale avrebbe semplicemente costituito un ulteriore ostacolo che le parti avrebbero usato per intralciare il processo di pace nei momenti cruciali" [17] .

Gli Stati Uniti, però, vedevano anche i lati positivi dell'accordo di febbraio; in particolare, accogliendo al primo punto dell'accordo tutte le risoluzioni ONU che facevano riferimento al problema palestinese, l'OLP accettava anche implicitamente le risoluzioni 242 e 338, come richiesto dalla promessa Kissinger.

Durante tutto un anno, dal febbraio 1985, quando Giordania e OLP siglarono il loro accordo, al febbraio 1986, quando in un lungo discorso Hussein dichiarò il fallimento della coordinazione con l'OLP, gli sforzi giordani si diressero verso la ricerca di una formula che, permettendo un incontro tra gli Stati Uniti e l'OLP, aprisse finalmente la strada ai negoziati per il ritorno dei territori occupati.

Il 4 aprile 1985 re Hussein nominò primo ministro Zeid Rifai, un interlocutore apprezzato a Washington ed un uomo con una grande esperienza di diplomazia internazionale. [18] Alla nomina di Rifai seguirono tre mesi di intensi contatti tra il governo giordano e gli Stati Uniti riguardo una forma di partecipazione palestinese accettabile all'OLP e agli Stati Uniti all'interno di una delegazione giordano-palestinese.

In lunghe trattative con l'inviato americano Richard Murphy i leader giordani giunsero a definire una procedura in quattro stadi [19] : come primo passo Murphy avrebbe incontrato una delegazione giordano-palestinese in cui gli esponenti palestinesi avrebbero potuto far parte del CNP, ma non avrebbero dovuto essere membri veri e propri delle organizzazioni dell'OLP; come secondo passo l'OLP avrebbe soddisfatto le clausole della promessa Kissinger accettando le risoluzioni 242 e 338, riconosciuto il diritto di Israele ad esistere e rinunciato al terrorismo; la terza fase avrebbe visto l'apertura ufficiale di un dialogo tra gli Stati Uniti e l'OLP attraverso l'incontro di una delegazione americana con una delegazione mista della Giordania e dell'OLP; il quarto passo sarebbe stata la convocazione di una conferenza internazionale, dopo la quale contatti diretti tra Israele e le parti arabe sarebbero stati possibili.

Gli Stati Uniti continuavano però a guardare con perplessità all'ipotesi di una conferenza internazionale, soprattutto se questa, come desiderava la Giordania, avesse avuto un mandato per entrare nel merito delle questioni dibattute dalle parti. "L'intero punto di un incontro di Murphy con un gruppo giordano-palestinese" spiegava Shultz "era di produrre dei contatti diretti arabo-israeliani in un momento immediatamente successivo" [20] e non di avviare un lungo processo diplomatico: solo un immediato e clamoroso passo in avanti, come quello di riaprire i contatti tra Israele e gli arabi, avrebbe potuto giustificare, nella percezione americana, i rischi contenuti in un incontro americano con elementi palestinesi che avrebbe, inevitabilmente, esposto l'amministrazione americana all'accusa di legittimare l'OLP.

Un accordo di massima che permettesse di superare questi timori americani fu raggiunto, secondo quanto riporta George Shultz, ad Aqaba il 12 maggio tra il segretario di stato americano e re Hussein. A seguito di un incoraggiante comunicato in cui il governo israeliano si dichiarava pronto ad incontrare una delegazione giordano-palestinese che "non [contenesse] persone appartenenti ad un'organizzazione legata alla Carta Palestinese" [21] , giordani e americani concordarono su una formula secondo la quale "re Hussein avrebbe prodotto dei nomi per una delegazione congiunta giordano-palestinese. I palestinesi sulla lista non sarebbero state persone inaccettabili per Israele. Murphy avrebbe incontrato questo gruppo, [e a questo sarebbe] seguito quasi immediatamente la sessione di un "gruppo di lavoro": una delegazione giordano-palestinese e una delegazione israeliana si sarebbero incontrate faccia a faccia, non per negoziare ma per delineare dei dispositivi per dei negoziati diretti che sarebbero seguiti tra le due parti" [22] . Sempre secondo il resoconto di Shultz Hussein si sarebbe addirittura detto pronto a dichiarare, durante la sua visita negli Stati Uniti che avrebbe avuto luogo nelle settimane successive, che la Giordania non era più in uno stato di belligeranza con Israele.

Al di là delle aspettative, poco realistiche, del segretario di stato americano, la visita di Hussein produsse comunque un progresso; Hussein dichiarò, con l'autorizzazione dell'OLP, che l'OLP era pronto a condurre dei negoziati sulla base delle risoluzioni delle Nazioni Unite pertinenti, comprese le risoluzioni 242 e 338 e ad esercitare il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese all'interno di una confederazione con la Giordania [23] . Arafat, contemporaneamente, spiegava che l'OLP era pronto a riconoscere le risoluzioni 242 e 338 se gli Stati Uniti avessero a loro volta riconosciuto il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione.

Secondo quanto riporta Shultz nel mese di luglio un incontro segreto tra Peres e un "inviato" di Hussein (Hussein stesso, secondo il segretario di stato americano) avrebbe avuto luogo a Londra. Dopodiché Peres avrebbe inviato l'ex-ambasciatore israeliano a Washington Dinitz per aggiornare il segretario di stato americano. Shultz riporta che "Shimon Peres e un "inviato" di re Hussein si erano segretamente incontrati a Londra il 19 luglio. Dinitz mi riferì riguardo gli esiti. La natura estremamente delicata della discussione mi comunicò subito che Peres aveva incontrato lo stesso re Hussein. Peres aveva probabilmente promesso al re che non avrebbe rivelato questo fatto [.] a Peres "l'inviato" aveva detto che l'OLP aveva fornito a re Hussein una lista di ventidue nomi e che il re li aveva respinti quasi tutti. I sette che restavano non erano, secondo l'impressione del re, prominenti all'interno dell'OLP oppure non erano del tutto membri dell'OLP. Gli Stati Uniti dovevano ora sceglierne quattro dai sette. La visione di re Hussein [riguardo l'esito del processo di pace] era di una conclusiva confederazione giordano-palestinese con un [solo] capo del governo, un [solo] esercito, un [solo] servizio diplomatico. La West Bank e Gaza sarebbero state demilitarizzate e non sarebbero state uno stato indipendente; piuttosto, quelle aree sarebbero state parte di un stato confederato basato in Giordania. Secondo lo scenario del re, Dick Murphy avrebbe incontrato la delegazione giordano-palestinese. Quindi l'OLP avrebbe soddisfatto le condizioni americane per un dialogo. Il re aveva bisogno di una conferenza internazionale come copertura; la conferenza doveva riunirsi solo una volta per autorizzare gli incontri diretti tra arabi e israeliani. Tutto questo sarebbe avvenuto in accordo con l'iniziativa Reagan del 1 settembre 1982. Il piano Reagan "assicura la base per un accordo" avrebbe detto l'inviato.

Peres rifiutò fermamente ogni tipo di sessione prenegoziale, se ciò era quello che un "incontro di Murphy" con un team giordano-palestinese voleva dire. E Peres chiarificò ancora una volta che Israele non avrebbe mai seduto con l'OLP in nessuna circostanza" [24] .

Secondo l'interpretazione di Shultz "il rapporto di Dinitz suggeriva che un nuovo e promettente livello di contatto personale era stato raggiunto attraverso l'incontro segreto di Londra. Ma alcuni problemi fondamentali rimanevano: chi avrebbe rappresentato i palestinesi. E la conferenza internazionale, anche se strutturata con lo scopo di tenere tale forum internazionale sotto controllo, suonava ancora come un problema. Ad ogni modo, anche se Peres aveva detto a re Hussein che Israele non poteva approvare esplicitamente un incontro di Dick Murphy con un gruppo giordano-palestinese come premessa a negoziati diretti arabo-israeliani, a casa mia Dinitz mi informava di qualcosa che Peres apparentemente non aveva detto al re. Secondo il punto di vista di Peres, se l'incontro di Murphy avesse avuto luogo, Israele avrebbe dovuto conviverci, pur muovendo pubblicamente delle obiezioni" [25] .

A seguito di questo incontro, Shultz diede istruzioni a Murphy perché lavorasse a un incontro con una delegazione giordano-palestinese e alla convocazione di una conferenza internazionale, da cui però sarebbero state escluse le nazioni che non intrattenevano relazioni diplomatiche con Israele, cioè l'Unione Sovietica.  Durante l'estate gli sforzi diplomatici si concentrarono sulla lista di nomi fornita agli Stati Uniti dalla Giordania. Nella seconda metà di agosto, secondo quanto riferisce Alan Hart, gli Stati Uniti indicarono che quattro nomi erano accettabili, e cioè "Hanna Sinora, editore capo del rispettabile giornale di Gerusalemme Est Al Fajr e, per molti anni, un sostenitore del dialogo con Israele; Faiz Abu Rahmeh, un avvocato e, in termini politici, un peso leggero di Gaza; Henry Cattan, un anziano giurista di reputazione internazionale che aveva vissuto per molti anni a Parigi; e Nabil Sha'ath, un uomo d'affari basato al Cairo e un ex-consigliere di Arafat" [26] . Di questi nomi quello di Sha'ath pose dei problemi per gli Stati Uniti: Sha'ath era un membro indipendente del CNP, e quindi rientrava nei parametri americani per definire un "non-membro" dell'OLP; le lobby filo-israeliane americane e il governo di Israele non erano però dello stesso avviso. Per alcuni giorni un viaggio di Murphy sembrò possibile, ma alla fine la pressione contraria all'incontro prevalse, e quella che era stata comunemente ritenuta l'ultima chance cadde definitivamente all'inizio di settembre.

Subito dopo il fallimento dell'incontro di Murphy, il primo ministro britannico, Margaret Thatcher, decise di prendere l'iniziativa: durante una visita di stato ad Amman, criticando implicitamente l'arretramento americano di fronte alle pressioni israeliane, invitò a Londra per la metà di ottobre due membri del Comitato Esecutivo dell'OLP, Muhammad Milhem, precedentemente sindaco di Halhoul nella West Bank, ed il vescovo Elia Khoury, vescovo suffraganeo di Gerusalemme, per dei colloqui con il ministro degli esteri, sir Geoffrey Howe, come membri di una delegazione giordano-palestinese.

Alla fine di settembre Hussein si recò negli Stati Uniti; oltre a parlare alle Nazioni Unite e a cercare di sbloccare, senza successo, un acquisto di armi da parte della Giordania lungamente ostacolato dal Congresso, la visita del re mirava a convincere gli Stati Uniti che l'OLP aveva effettivamente imboccato la strada della moderazione. Le lunghe trattative tra Giordania e Stati Uniti si bloccarono sul mandato della conferenza internazionale, che la Giordania voleva capace di intervenire in caso di bisogno per sbloccare i negoziati, e sulla partecipazione dell'Unione Sovietica, che gli Stati Uniti volevano condizionare allo stabilimento di relazioni diplomatiche con Israele. I giordani al contrario ritenevano, come ricostruiva Hussein nel discorso con cui nel febbraio successivo pose fine alla coordinazione con l'OLP, che "una conferenza internazionale senza la partecipazione dell'Unione Sovietica sarebbe stata una conferenza incrinata [sin dall'inizio] [e che] se la ragione per escludere l'Unione Sovietica dalla conferenza era quella che non aveva relazioni diplomatiche con Israele, che è una parte del conflitto, gli Stati Uniti  da parte loro non riconoscono l'OLP che è un'altra parte del conflitto. In questo modo l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti erano nella stessa situazione a questo riguardo" [27] . La visita di Hussein e i suoi argomenti in favore dell'OLP furono fortemente indeboliti dallo scoppio di violenza nel Medio Oriente nei mesi di settembre e ottobre, prima con l'assassinio di tre israeliani a Larnaca, quindi con il raid israeliano su Tunisi e con il dirottamento dell'Achille Lauro durante il quale un anziano turista ebreo-americano fu assassinato.

Anche l'iniziativa della signora Thatcher naufragò nella nuova ondata di violenza, quando i due palestinesi designati per l'incontro di Londra rifiutarono di sottoscrivere una dichiarazione, redatta secondo l'OLP in modo da rendere inevitabile un rifiuto e quindi un fallimento imputabile all'organizzazione palestinese, secondo la quale i due esponenti palestinesi ripudiavano "ogni forma di terrorismo e violenza da qualsiasi fonte" [28] . Il problema con questa formulazione era che sembrava escludere anche il diritto, legittimo secondo l'OLP, di lotta armata dei palestinesi contro l'occupazione israeliana nei territori.

L'ultima fase della coordinazione con l'OLP è ricostruita con precisione dal discorso del febbraio 1986 di re Hussein. Tornato ad Amman ad ottobre dalla sua visita negli Stati Uniti, Hussein riporta che "informammo la leadership dell'OLP di quello che avevamo portato a termine durante i nostri incontri di Washington. Li informammo che all'OLP sarebbe stato chiesto di accettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza 242 e 338 per poter essere invitato ad una conferenza internazionale, di accettare il principio di partecipare ai negoziati con il governo di Israele come parte di una delegazione comune giordano-palestinese nel contesto di una conferenza internazionale, che sarebbe stata convocata per raggiungere una composizione globale, e di rinunciare al terrorismo" [29] .

Il 7 novembre, Arafat alla presenza del presidente egiziano Mubarak, in quella che divenne nota come la Dichiarazione del Cairo, rinunciò al terrorismo in tutte le sue forme, qualunque fosse la fonte. Secondo quanto riporta Hussein nel suo discorso, il Comitato Esecutivo dell'OLP, riunitosi il 24 novembre a Baghdad per decidere riguardo l'approvazione delle risoluzioni 242 e 338 aveva deciso all'unanimità di respingerle, ma non aveva informato la Giordania della decisione raggiunta.

All'inizio del 1986 l'attività diplomatica si fece più frenetica mentre tutte le parti in causa si rendevano conto che, avvicinandosi il momento in cui, secondo l'accordo con cui era stato formato il governo di unità nazionale in Israele, Shimon Peres avrebbe dovuto cedere il posto di primo ministro al leader del Likud Yitzhak Shamir, era necessario giungere a una conclusione positiva o rinunciare per un tempo imprecisato a qualunque progresso.

Durante il mese di gennaio del 1986, mentre si trovava a Londra per ragioni di salute, Hussein portò avanti un nuovo round di negoziati con Murphy riguardo la convocazione di una conferenza internazionale e la partecipazione dell'OLP. Al termine di questi negoziati il governo giordano ricevette una proposta ufficiale da parte degli Stati Uniti secondo la quale "Quando risulterà chiaramente [when it is clearly on the public record] che l'OLP ha accettato le risoluzioni 242 e 338, è pronto a negoziare la pace con Israele, e ha rinunciato al terrorismo, gli Stati Uniti accetteranno il fatto che un invito verrà inviato all'OLP perché partecipi a una conferenza internazionale" [30] . Lo stesso giorno Arafat giunse ad Amman, dando il via ad una serie di incontri molto tesi tra esponenti del governo giordano ed esponenti dell'OLP. Hussein riporta che "la discussione si concentrò sull'argomento delle assicurazioni americane e sulla posizione dell'OLP riguardo tali assicurazioni. Assumevamo che l'OLP le avrebbe accettate perché: 1. le assicurazioni soddisfacevano le richieste dell'OLP; 2. riflettevano un cambio significativo nella posizione degli Stati Uniti in favore dell'OLP. La posizione statunitense riguardo l'OLP quando iniziammo per la prima volta il nostro dialogo intensivo di un anno era che gli Stati Uniti sarebbero entrati in un dialogo con l'OLP solo dopo che questo avesse accettato la risoluzione 242. Ora, in confronto, la posizione del presidente degli Stati Uniti rifletteva la sua disposizione ad andare un passo oltre al dialogo con l'OLP accettando che l'OLP fosse invitato alla conferenza internazionale" [31] . L'OLP però continuò a rifiutare di accogliere la risoluzione 242, a meno che questa non fosse posta nel contesto delle altre risoluzioni ONU. La risoluzione 242, infatti, secondo l'OLP, da sola trattava la questione palestinese come una mera questione di rifugiati e non considerava il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione.

Essendo giunti così vicini alla convocazione di una conferenza internazionale, che aveva tanto a lungo costituito un obiettivo primario della diplomazia giordana, gli esponenti del governo giordano continuarono i negoziati con l'OLP, sperando di giungere ad un accordo.

Hussein riporta che "la risposta della leadership palestinese fu che volevano un emendamento al testo proposto per l'accoglimento della risoluzione 242. L'emendamento avrebbe richiesto l'aggiunta di una dichiarazione che indicasse il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dei diritti legittimi del popolo palestinese, incluso il loro diritto all'autodeterminazione all'interno del contesto di una confederazione tra la Giordania e la Palestina come stabilito nell'accordo dell'11 febbraio. Ricordammo ai leader palestinesi che l'argomento dell'autodeterminazione all'interno del contesto di una confederazione era un problema dei giordani e dei palestinesi, e che nessun'altra parte aveva a che fare con esso. [.] La cosa più importante era ottenere prima di tutto il ritiro, dopodiché avremmo proceduto con quello su cui ci eravamo accordati [.] Dicemmo loro che coinvolgere gli Stati Uniti, o altri, in questa questione avrebbe significato aprire volontariamente le porte ad altri perché interferissero nei nostri affari comuni [.] Ma, nonostante questo, la leadership palestinese insistette sulle proprie posizioni. E anche se la posizione americana più recente aveva soddisfatto le domande dell'OLP acconsentimmo a riprendere i contatti con i funzionari a Washington attraverso l'ambasciata americana ad Amman la sera del 27 gennaio. La risposta americana fu la seguente: 1. L'accordo dell'11 febbraio è un accordo tra giordani e palestinesi che non riguarda gli Stati Uniti. 2. Gli Stati Uniti appoggiano i diritti legittimi del popolo palestinese come stabilito nell'Iniziativa di Pace Reagan. 3. L'OLP come ogni altre parte ha il diritto di proporre tutto ciò che desidera incluso il diritto all'autodeterminazione alla conferenza internazionale. 4. Per tutte queste ragioni gli Stati Uniti mantengono la propria posizione. Trasmettemmo la risposta americana ad Arafat durante un incontro allargato al palazzo di al Nadwa il 28 gennaio, ma Arafat insistette perché tentassimo ancora" [32] . I negoziati triangolari tra la Giordania, l'OLP e gli Stati Uniti continuarono nei primi giorni di febbraio fino a quando il 7 Arafat lasciò Amman senza che un accordo fosse stato raggiunto.

Il discorso con cui il 19 febbraio 1986 re Hussein pose fine alla coordinazione con l'OLP fu un discorso lungo e duro. Dopo aver ricostruito nei dettagli le iniziative che avevano impegnato la Giordania in una maratona diplomatica durata un anno, il sovrano giordano sottolineò i risultati raggiunti dall'impegno giordano: "abbiamo attraversato un estenuante anno di sforzi intensivi e abbiamo affrontato molti ostacoli, che in molti casi superavano la nostra resistenza. Ma siamo riusciti ad ottenere quello che sembrava impossibile. Abbiamo aperto strade che erano considerate chiuse per noi e per i nostri fratelli arabi e palestinesi. Siamo stati capaci di portare il piano Fez fino a un punto che precedeva appena [la convocazione] della Conferenza di Pace Internazionale, che richiedeva" [33] . A questo punto alla Giordania, "sostenuta da una parte dal progresso ottenuto nel fornire una reale opportunità per la pace e addolorata dall'altra dagli impedimenti sorti quando eravamo tanto vicini al traguardo" [34] , non restava che "rinviare ancora una volta la questione ai fori palestinesi nella diaspora e nei territori come alle capitali e alle organizzazioni arabe" [35] . La situazione nei territori occupati, suggeriva Hussein, era ormai disperata e richiedeva un intervento immediato che ponesse fine alla situazione di "non guerra-non pace". Ciononostante la Giordania era costretta a constatare il fallimento dell'iniziativa basata sull'Accordo di febbraio e a porre fine alla coordinazione con l'OLP. "Dopo due lunghi tentativi io e il governo del Regno Hashemita di Giordania" concludeva Hussein "annunciamo in questo modo che non siamo in grado di continuare a coordinarci politicamente con la leadership dell'OLP fino a quando la loro parola non diventi il loro vincolo, caratterizzato da impegno, credibilità e costanza. Dalla nostra parte, non conosciamo altro modo di favorire la fiducia che attraverso la sincerità, né altro modo di rafforzarla che attraverso la chiarezza, ché la fiducia è della massima importanza in una cooperazione costruttiva" [36] . L'ultima parte del discorso di Hussein, rivolgendosi ai palestinesi dei territori occupati anticipava la mossa successiva giordana, che proprio ai palestinesi della West Bank si sarebbe rivolta. "Quanto a voi, donne e uomini, che tenete alta la testa sotto l'occupazione, che rimanete saldi nella nostra patria ancestrale, che siete i custodi di Al Aqsa, del luogo dell'ascensione del Profeta, che siete i difensori di Gerusalemme e dei Luoghi Santi, simboli viventi della lunga storia della terra dei profeti e degli uomini santi, e i conservatori di un'identità che - a Dio piacendo - non sarà mai offuscata o cancellata, a voi, i nostri fratelli palestinesi dei territori occupati, mando i miei saluti, il mio affetto e il mio apprezzamento. A voi rinnovo il mio impegno che resteremo qui in Giordania ciò che siamo stati: fratelli impegnati nella vostra causa e sostenitori in tutto quello che dovete affrontare. Continueremo a sostenervi, nei limiti delle nostre possibilità, con ogni mezzo possibile. Attendiamo con impazienza il giorno in cui sarete un popolo libero sulla propria terra, sicuri e fiduciosi del vostro presente e del vostro futuro, e orgogliosi dei frutti della vostra lotta e della vostra saldezza" [37] .

La frustrazione di Hussein e della leadership giordana era sicuramente molto intensa davanti al fallimento di un'iniziativa che aveva impegnato a fondo la diplomazia giordana e che, oltre a non ottenere un'apertura nel problema della presenza dell'OLP nei negoziati di pace, si era conclusa con una fortissima pressione da parte statunitense, incarnata nel rifiuto del Congresso a consentire la vendita delle armi necessarie all'esercito giordano, perché la Giordania abbandonasse l'OLP ed entrasse direttamente, e da sola, in negoziati diretti con Israele.

Il problema di fondo della maratona diplomatica giordana del periodo 1984-86 fu che la Giordania era l'unico dei protagonisti impegnato completamente, e senza ripensamenti, nella riuscita dell'iniziativa. Il mondo arabo, a causa della ferma opposizione della Siria, non aveva adottato completamente l'accordo di febbraio; l'Unione Sovietica, nonostante l'idea di una conferenza internazionale fosse nata espressamente per fornirle un ruolo e un incentivo, continuava ad opporsi alla coordinazione tra l'OLP e la Giordania.

Lo stesso OLP, e personaggi influenti e vicini ad Arafat come Abu Mazen o Abu Jihad, erano tutt'altro che convinti della saggezza di affidare un ruolo da "fratello maggiore" a Hussein, rimettendo così in discussione lo status dell'OLP come solo e legittimo rappresentante del popolo palestinese e il diritto del popolo palestinese ad uno stato indipendente sotto la leadership dell'OLP. Accettare poi in una fase pre-decisionale la risoluzione 242 e il diritto di esistere dello stato di Israele e rinunciare al terrorismo era percepita come una scelta azzardata dalla leadership dell'OLP che temeva di perdere così le uniche carte negoziali di cui disponeva prima ancora che si aprissero i negoziati; l'apertura di un dialogo con gli Stati Uniti non era una moneta di scambio sufficiente, soprattutto nel momento in cui questo dialogo, non essendosi impegnati gli americani a riconoscere il diritto dell'OLP all'autodeterminazione, poteva rivelarsi del tutto sterile. Il riconoscimento della risoluzione 242, inoltre, avrebbe potuto causare un forte deficit di legittimità per l'OLP all'interno della diaspora palestinese, implicando la rinuncia dello scopo stesso dell'OLP, cioè della liberazione di tutta la Palestina. Arafat, quindi, non voleva nel 1986 mettere in discussione la sua leadership palestinese per degli obiettivi che, data la "tutela" giordana, l'inflessibilità statunitense, la divisione interna israeliana riguardo le possibilità di un compresso e, al contrario, l'unità israeliana nell'opporsi a negoziati con l'OLP, sembravano vaghi, lontani e tutt'altro che sicuri.

Grazie alla coordinazione con la Giordania nel periodo 1984-86 era riuscito a trovare uno spazio di manovra, e un "momento di respiro", che dopo la seconda espulsione dal Libano e la "guerra" dichiarata dalla Siria alla sua leadership, si erano rivelati decisivi per garantire, se non la sopravvivenza dell'OLP, il mantenimento del predominio di Arafat e di Fatah, messi in discussione nel 1984 anche da fazioni come il FPLP e il FPDLP che non rispondevano direttamente a Damasco. Il ritorno dell'unità all'interno dell'OLP che avrebbe caratterizzato il 1987 e il rafforzamento della leadership di Arafat furono permessi dalla rottura con la Giordania, ma prima di questa rottura, era stata proprio la coordinazione con la Giordania a traghettare un Arafat in difficoltà dalla sconfitta di Tripoli alla vittoria di Algeri  dell'aprile del 1987.

La domanda che è lecito porsi è se Arafat era serio nei suoi sforzi di coordinazione con la Giordania in questo periodo, o se mirava solamente a ricavare lo spazio di manovra di cui aveva disperatamente bisogno. Secondo Taher al Masri "[Arafat] non era serio. Era una tattica, perché aveva bisogno di una base, aveva bisogno di un'apertura per respirare e sopravvivere, e re Hussein gli fornì questo. Quando Arafat riuscì a migliorare la sua posizione, l'accordo cessò di avere importanza per lui" [38] ; Kamel Abu Jaber sottolinea come "Arafat non lavorava nel vuoto" [39] , come, cioè, il suo margine di manovra fosse limitato dalle divisioni all'interno dell'OLP. Anche Zeid Rifai nota come i problemi non sorgessero personalmente con Arafat, ma come, dopo che questi aveva consultato la leadership dell'OLP, spesso le sue posizioni mutavano [40] . E' difficile, quindi, concludere quale fosse la posizione personale di Arafat riguardo la cooperazione con la Giordania, ma ciò che è certo, e ciò che importa, è che essa, diversamente dagli obiettivi per cui Hussein e il governo giordano la avevano formata, rispondeva anche, e probabilmente soprattutto, più al bisogno di Arafat e dell'OLP di trovare "il tempo necessario a preparare la scena interna per le decisioni che si sarebbero dovute prendere più avanti" [41] e a superare la minaccia siriana, che al desiderio di raggiungere degli obiettivi immediati nel processo di pace.

Infine anche gli Stati Uniti, dalla cui capacità di intervenire come superpotenza dipendevano, in ultima analisi, le possibilità di successo dell'iniziativa giordana, non erano completamente impegnati nel successo di un'iniziativa cui avrebbero preferito dei contatti diretti tra Hussein e Peres, sul modello di Camp David, che avrebbero lasciato fuori dall'equazione l'Unione Sovietica e l'OLP.  

Fallita questa ambiziosa iniziativa, la Giordania perseguì nel periodo 1986-88 un ultimo, e in qualche modo disperato, tentativo ricercando la copertura necessaria per gli accordi con Israele negli stessi palestinesi dei territori; ma a porre fine alle ambizioni e alle illusioni giordane sarebbe stato, nel dicembre 1987, lo scoppio dell'Intifada.

dott. Roberto Storaci



[1] Zeid Rifai, (Presidente del Senato giordano; già primo ministro, ministro degli esteri e della difesa, capo della corte reale). Intervista personale.

[2] Emile Sahliyeh, Jordan and the Palestinians in William B. Quandt (ed.), The Middle East Ten Years After Camp David, Washington, 1988.

[3] Naseer H. Aruri, The PLO and the Jordan Option in Merip Reports, n° 131, marzo-aprile 1985.

[4] Emile Sahliyeh, op. cit. in William B. Quandt (ed.), 1988, op. cit..

[5] Taher al Masri, (Senatore giordano; già primo ministro, ministro degli esteri, della difesa e dei territori occupati) Intervista personale.

[6] Discorso di re Hussein all'apertura del XVII Consiglio Nazionale Palestinese, Amman 22 novembre 1984; in Journal of  Palestine Studies, vol. XIV/2, n°54, inverno 1985.

[7] Ibid..

[8] Ibid..

[9] Ibid..

[10] Per il testo dell'accordo vd. Journal of Palestine Studies, vol. XIV/3, n°55, primavera 1985.

[11] Citato in Emile Sahliyeh, op. cit. in William B. Quandt (ed.), 1988, op. cit..

[12] Taher al Masri, intervista personale.

[13] Taher al Masri, ibid..

[14] George P. Shultz, Turmoil and Triumph. My Years as Secretary of State, New York 1993.

[15] Madiha R. al Madfai, Jordan, the United States and the Peace Process 1974-1991, Cambridge 1993.

[16] Zeid Rifai, intervista personale.

[17] George P. Shultz, 1993, op. cit..

[18] La nomina di Zeid Rifai non derivò però solo da questo. Essa rispondeva anche alla necessità di un riavvicinamento alla Siria e a considerazioni di politica interna che avevano portato alla fine del governo Obeydat.

[19] Vd. George P. Shultz, 1993, op. cit..

[20] George P. Shultz, ibid..

[21] George P. Shultz, ibid..

[22] George P. Shultz, ibid..

[23] Vd. re Hussein b. Talal, The Jordanian-Palestinian Peace Initiative: Mutual Recognition and Territory for Peace in Journal of Palestine Studies vol. XIV/4, n° 56, estate 1985; che raccoglie alcuni dei discorsi pronunciati da Hussein durante la sua visita americana.

[24] George P. Shultz, 1993, op. cit..

[25] George P. Shultz, ibid..

[26] Alan Hart, Arafat. A Political Biography, Bloomington 1989.

[27] Re Hussein, discorso alla nazione, riportato in Jordan Times, 20/21 febbraio 1986.

[28] Alan Hart, 1989, op. cit..

[29] Re Hussein, discorso alla nazione, riportato in Jordan Times, 20/21 febbraio 1986.

[30] Ibid..

[31] Ibid..

[32] Ibid..

[33] Ibid..

[34] Ibid..

[35] Ibid..

[36] Ibid..

[37] Ibid..

[38] Taher al Masri, conversazione con l'autore.

[39] Kamel Abu Jaber (Politologo ed economista giordano, direttore del Jordan Institute of Diplomacy; già ministro degli esteri e ministro dell'economia), conversazione con l'autore.

[40] Zeid Rifai, conversazione con l'autore.

[41] Zeid Rifai, ibid..


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Numero 11
gennaio 2001

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