Periodico a cura del Centro Studi Mediterranei - Direttore Agostino Spataro - E-mail: infomedi@infomedi.it

Paesi arabi: Le rivolte del pane

di Najib Akesbi *

All'inizio del 2011, i prezzi mondiali della maggior parte dei prodotti alimentari, hanno ripreso a crescere a un ritmo tale da superare i record del 2007/2008.

Di colpo, in numerosi paesi in sviluppo, segnatamente quelli dell'est e del sud del Mediterraneo, riappariva lo spettro delle "Rivolte del pane", divenute ricorrenti in simili situazioni.

Il fatto nuovo è che tutto ciò arriva in un contesto politico quantomeno particolare, segnato da sommosse popolari che, dal Marocco in Giordania, passando per l'Egitto, sono una concatenazione di reazioni contro il caro-vita e la miseria che ne consegue per, poi, evolvere rapidamente verso rivendicazioni per la democrazia e la giustizia sociale. Come si è potuto arrivare a tanto?

Per comprendere la situazione attuale, bisogna sapere che essa è il prodotto di alcune scelte fatte a livello di politiche agricole, di finanze pubbliche e di governance. Scelte che, unendosi, si sono rivelate completamente disastrose. In origine si trovano, quasi dappertutto, politiche agricole e alimentari che hanno giocato la carta della differenziazione, specializzandosi nella

esportazione di frutta e verdura, trascurando l'agricoltura per uso alimentare e la produzione di derrate di base (cereali, legumi, carne, latticini, zucchero, olio) destinati alla soddisfazione dei bisogni della popolazione. 

Non ricercando un adeguamento accettabile tra la produzione e i modelli di consumo adottati dalle popolazioni, queste politiche hanno generato una rottura tra l'offerta e la domanda interna dei prodotti alimentari, tanto che i paesi interessati sono, gradatamente, sprofondati in una dipendenza alimentare cronica. Il ricorso al mercato internazionale diventa, dunque, inevitabile per colmare i deficit che aumentano senza tregua. Quando i prezzi mondiali sono bassi, come lo erano durante gli anni '90 fino a metà del 2000, questa condizione è paradossalmente vantaggiosa.

Inferiori ai corsi interni, questi prezzi permettono ai regimi di ricavare risorse fiscali sostanziali (sotto forma di diritti di dogana e altre tasse annesse) garantendo un approvvigionamento in derrate alimentari poco costoso per le popolazioni.

Attraverso questa politica si poteva così comprare a prezzo basso la pace sociale e perpetuare dei sistemi politici non democratici. Ma quando i costi mondiali aumentano, il migliore diviene il peggiore…

Gli alti prezzi obbligano i governi a rinunciare alle loro risorse doganali, senza che un tale sacrificio finanziario sia sufficiente a ristabilire l'equilibrio sui mercati interni.

Se avallano i rialzi, si scontrano con i limiti del potere d'acquisto dei consumatori, d'altronde vittime di modelli economici ineguali e deboli creatori di impiego.

Tuttavia, il problema non è solamente sociale, ma allo stesso tempo economico. Da Ricardo in poi (Cf. la teoria dei"biens salariaux"), si conosce la relazione tra l'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e il livello dei salari e, quindi, il costo della manodopera.

Perciò, per paesi che adottano le strategie di "promozioni dell'esportazioni" come principale motore della loro crescita una tale prospettiva danneggia una competitività ancora largamente fondata sul costo della forza lavoro.

Fare pressione sul livello dei salari per preservare talune competitività passa così per il sostegno dei prezzi dei prodotti alimentari di base. E' qui che lo Stato interviene, con le proprie sovvenzioni dette "al consumo", per sostenere prezzi elevati, evitando di scaricarne il costo sui consumatori.

Progressivamente, è stato utilizzato un modo per regolare le finanze pubbliche attraverso il quale lo Stato si prende in carico il costo di un equilibrio sociale compatibile con il vincolo dell'apertura e della competizione internazionali.

Dagli anni '80 del ventesimo secolo, pressati dalle istituzioni finanziarie internazionali e da politiche neoliberali dell'epoca, numerosi governi hanno tentato di allentare la morsa di un tale sistema, provando a diminuire, perfino sopprimere, le sovvenzioni in questione.

Il rincaro dei prezzi dei prodotti di base che ne conseguiva, speso ha provocato gravi disordini sociali e memorabili rivolte della fame.

Questo dossier, divenuto ultra-sensibile, suscita nei governanti, che ne sono responsabili, paura, diffidenza ed estrema prudenza. Oggi, poiché è più forte la dipendenza dalle importazioni alimentari e che il sistema di sovvenzione dei prodotti di base non è stato né soppresso né significativamente riformato, ecco che i prezzi mondiali s'infiammano e con loro si innesca una vera discesa verso gli inferi.

Per gli Stati si sono sciolte come neve al sole non solo le entrate doganali, ma gli oneri di compensazione raggiungono vette elevate, annunciatrici di giorni difficili per i loro equilibri di budget.

Le sovvenzioni su qualche prodotto di base non impediscono la guerra dei rialzi vertiginosi dei prezzi della maggior parte dei prodotti alimentari; tutto ciò per i consumatori si traduce in un brutale aumento del costo della vita e di degrado del loro potere d'acquisto.

Di nuovo, il clima sociale è teso, e i movimenti rivendicativi si moltiplicano…

Tra i vincoli esterni, contro i quali non si può far nulla, e certi rischi di destabilizzazione interna il dilemma dei governanti è assoluto.

Come continuare a "comprare" la pace sociale quando il suo costo diviene esorbitante?

Come volere, nel stesso tempo, lottare contro la povertà con il solo sistema possibile fino ad oggi e permettere ai poveri di accedere ad una alimentazione di base, con costi più o meno rapportati al loro potere d'acquisto?

Come continuare a scommettere sulla globalizzazione e, allo stesso tempo, correre il rischio di un aumento dei prezzi pericoloso per la competitività dell'economia? Si potrà passare da un modo di regolazione adottato dallo Stato senza essere all'altezza di sostituirlo con un altro assunto dal mercato?

Se tutti sono d'accordo a riconoscere che, in generale, il sistema di sovvenzione dei prodotti alimentari di base è stato deviato dai suoi obbiettivi iniziali, favorendo meno coloro che ne hanno veramente bisogno di quelli che ne possono fare a meno, nessuno osa ancora opporgli una alternativa più efficace e più equa.

Il sistema degli "aiuti mirati", un tempo presentato da taluni come una soluzione alternativa, non sembra aver dimostrato ancora né la sua efficacia, né la sua semplice fattibilità. Quanto al sistema degli aiuti diretti al reddito (praticamente, il solo ancora autorizzato nel quadro di regole dell'OMC), il suo principale inconveniente è di essere troppo costoso, almeno al di sopra dei mezzi di alcuni paesi.

Si sa oggi che, di là delle fluttuazioni congiunturali, i prezzi mondiali dei prodotti alimentari, ormai, si collocano a livelli relativamente elevati. Quindi, questa situazione è assai inedita, e le soluzioni da inventare per risolverla dovranno essere tali. Noi crediamo, che questi problemi dovrebbero iscriversi in almeno tre direzioni. La prima dovrebbe riabilitare la nozione di sovranità alimentare e l'arricchimento di una dimensione regionale e collettiva. La seconda dovrebbe permettere di ripensare l'insieme dei sistemi redistributivi al fine d'assicurare, per mezzo di una solidarietà attiva, un livello di vita decente a coloro che ne hanno bisogno.

Infine, chi può continuare a ignorare che i popoli sono "affamati" anche di dignità e quindi di democrazia, sapendo cosa essa sia - come ha ben illustrato Amarty Sen- un ostacolo efficace per impedire che una crisi alimentare degeneri in carestia e questa ultima provochi una rivoluzione?...

 

* L'Autore è docente presso l'Institut Agronomique et Vétérinaire Hassan II, Rabat (Marocco).

L'articolo è stato pubblicato in "NEW MEDIT", Mediterranean Journal of Economics, Agriculture and Environment n. 1/2011

(traduzione di Monica Nicoletta Spataro)

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