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PALERMO
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In questa
nuova rubrica proponiamo articoli e commenti comparsi su "la Repubblica
- Palermo" riguardanti le relazioni tra la Sicilia e i paesi dell'area
mediterranea e del mondo arabo.
(
LA SICILIA NEL MEDITERRANEO)
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INQUIETANTE PROGETTO USA: SIGONELLA PIATTAFORMA PER LA GUERRA AL TERRORISMO ?
Ci risiamo. Invece di smantellarla, si vorrebbe trasformare la base italiana di Sigonella in una postazione avanzata delle forze armate Usa nella guerra al terrorismo internazionale.
Questo è il succo di una recente intervista che il gen. James Jones, comandante in capo delle forze armate Usa e alleate in Europa, ha concesso alla rivista militare "Stars and Stripes".
L'alto ufficiale quantomeno non esclude tale eventualità nel quadro di una prevedibile (se non programmata) guerra antiterroristica a vasto raggio che dall'Est europeo si potrà estendere all'Africa, passando per il Medio Oriente e per il Caucaso.
Dunque, si vorrebbe caricare la Sicilia, già abbondantemente militarizzata, di nuove micidiali strutture per avventure decise, al di fuori dell'Onu e della Nato, da un governo che ha fatto della guerra preventiva (contro chi sul momento più gli aggrada) il suo pericoloso emblema.
Una prospettiva a dir poco allarmante che farebbe della provincia di Catania il centro di una strategia straniera contro un terrorismo di difficile identificazione e dotato di un'alta potenzialità devastatrice, che punterebbe il suo terrificante armamentario (autobombe, kamikaze e perfino- si teme- ordigni nucleari e batteriologici) contro i luoghi che ospitano le postazioni da cui si dipartono le operazioni miranti al suo annientamento.
Attacco e rappresaglia, anche indiscriminata, secondo la logica bestiale della guerra, come vediamo tutti i giorni a Bagdhad, in Afghanistan, in Cecenia, nei Territori occupati, ecc.
Insomma, un frutto amaro piantato nel cuore della lussureggiante piana di Catania, la zona più promettente dello sviluppo isolano che ha tutte le carte in regola per rilanciare i settori portanti della sua economia: l'industria informatica, il turismo, l'agricoltura, i servizi all'impresa, i sistemi di trasporti.
La Sicilia, che si liberò per il rotto della cuffia dei 120 micidiali missili nucleari di Comiso, oggi rischia di essere gravata di una postazione così pericolosa.
Certo, prima di gridare allo scandalo è doveroso procedere alle necessarie verifiche, tuttavia non si può sottovalutare la portata di una notizia così "esplosiva" e gravida di dannose conseguenze.
Meglio mettere le mani avanti, anche perché non sarebbe questa la prima volta che in Sicilia le voci e le ipotesi giornalistiche si trasformano in realtà drammatiche.
Ricordo che quando (3 febbraio 1981) presentai la prima (in assoluto) interrogazione al ministro della Difesa circa la ventilata ipotesi d'installare i missili a Comiso molti, anche nel mio gruppo, non vollero dare peso alla questione; in pieno agosto, col Parlamento e con gli italiani in ferie, il governo Spadolini ci fece la bella sorpresa di Comiso.
Tornando a Sigonella, c'è da dire che l'ipotesi non è tanto peregrina giacché - ammette il generale Jones nella citata intervista - "stiamo cercando una postazione a sud delle Alpi che si possa rivelare il luogo migliore per concentrare le nostre operazioni speciali antiterrorismo e per agevolare le operazioni nell'area del Mediterraneo e in Medio Oriente".
Il campo di tale ricerca si riduce a due basi: Rota in Spagna e, appunto, Sigonella. Anche se l'allarme è stato lanciato per primo dal quotidiano spagnolo "El Pais", è da ritenere improbabile che la scelta possa cadere su Rota sia in considerazione dell'indirizzo politico del governo Zapatero sia per ragioni logistiche che, oggettivamente, propendono per Sigonella, ovvero per la più grande base attrezzata nel Mediterraneo per il cui potenziamento gli Usa hanno stanziato 670 milioni di dollari. E poi "a sud delle Alpi" non c'è la Spagna, ma l'Italia.
Una prospettiva a dir poco inquietante contro la quale hanno assunto posizione vari esponenti dei partiti del centro sinistra, mentre tace la CdL, compreso lo squadrone dei 61 eletti in Sicilia.
A sottolinearne i rischi, in primo luogo, sulla Sicilia è stato il senatore ds Costantino Garraffa che, unitamente ad altri colleghi di gruppo (Montalbano, Battaglia, Lauria, Rotondo e Montagnino), ha prontamente interrogato il ministro della Difesa, on. Martino, per sapere cosa intende fare per accertare "i veri intendimenti dell'amministrazione Usa e quali procedure verranno inoltrate alla luce di quanto stabilito dal Memorandum of understanding".
Per tutta risposta, Martino, da buon siciliano, invece di precipitarsi in Parlamento per rispondere alle interrogazioni, ha rilasciato una dichiarazione (all'Ansa) con la quale, pur riservandosi una valutazione nelle sedi istituzionali, avalla l'ipotesi formulata dal gen. Jones, ritenendola "un'idea valida.non solo per l'importanza del tipo di struttura che si verrebbe a creare, ma anche perché sarebbero creati nuovi posti di lavoro in Sicilia"
Ancora fumo negli occhi per i disoccupati, giacché si sa che a Sigonella verrebbe ad operare, magari trasferito da altre basi, soltanto personale militare americano dei corpi speciali e dei servizi. E poi, anche se si dovesse creare qualche posto di scopino non lo potremo barattare con la nostra relativa tranquillità e sicurezza e- se il signor ministro permette- con la nostra dignità di siciliani che non sono disposti ad accettare un lavoro macchiato dal sangue della guerra.
Per altro, ne risulterebbe stravolta la prospettiva generale dell'Isola che- come sottolinea Garraffa- si fonda sul rifiuto della guerra e su un ruolo di pace nel contesto del partenariato euromediterraneo che, nel 2010, dovrebbe dar vita alla più grande zona di libero scambio del pianeta.
Agostino Spataro
I
mercanti dei "nuovi schiavi", chi sono e come si organizzano
di
ATTILIO BOLZONI e FRANCESCO VIVIANO
TUNISI
- Vivono negli alberghi a cinque stelle sulla costa che da Hammamet scende
fino alle più tranquille oasi di Gabes. Si muovono da una parte
all'altra della Tunisia su Mercedes cabrio e su superaccessoriati gipponi.
Trattano i loro affari con i "capitani" delle barche che portano
il carico umano dall'altra parte del mare, poi nei bar e nelle taverne
di cenciose periferie maghrebine dettano patti e condizioni ai disperati
che vogliono partire. I numeri dei loro cellulari li hanno trovati addosso
a naufraghi liberiani e marocchini, etiopi, algerini, pakistani, curdi
e palestinesi. Sono tutti liberi i capi del racket. E continuano a fare
commercio di schiavi. Hanno un nome e un volto i negrieri che ogni giorno
scaricano migliaia di clandestini sulle spiagge siciliane. Sono tutti
tunisini. Comandano piccole bande, ciurme assoldate di volta in volta
e "trasportatori" fidati che sui loro furgoni attraversano il
deserto salato del Chott el Jerid. Incassano fino a millecinquecento euro
per ogni uomo o donna o bambino che raggiungerà l'Europa. Vivi
o morti.
Repubblica
è in grado di rivelare la "mappa" del traffico di "esseri
umani" che tre o quattro clan gestiscono tra la Tunisia e l'Italia.
Con l'identità dei capi del racket. Con i luoghi dove loro "accolgono"
i clandestini prima di smistarli sui pescherecci. Con i porti e i golfi
da dove salpano le carrette fradice che poi spesso affondano nel Canale
di Sicilia. Informazioni che provengono direttamente dai racconti dei
naufraghi, intervistati negli ultimi mesi negli ospedali di mezza Sicilia
o sulle spiagge dove sono stati ripescati. E informazioni che sono il
risultato delle investigazioni di poliziotti e carabinieri, quelli impegnati
a fronteggiare gli sbarchi da Marsala a Porto Empedocle, a Lampedusa e
a Pantelleria, da Licata a Capo Passero. Ecco cosa si è scoperto
fino ad ora sui trafficanti di schiavi dall'altra parte del Mediterraneo.
Bar Paris,
è uno dei punti di incontro più frequentati dai boss che
organizzano "viaggi". E' a Tunisi, è qui che numerosi
clandestini hanno pagato i negrieri per arrivare in Sicilia. Due marocchini
- uno sopravvissuto a una delle tante tragedie del mare, l'altro sbarcato
qualche mese fa sull'isola di Pantelleria - hanno raccontato ai poliziotti
che proprio al Bar Paris è cominciato il loro incubo. Ci sono arrivati
dopo avere avuto una serie di contatti attraverso un algerino di nome
Mohamed Boaziz e alla fine un numero di cellulare (che hanno fornito agli
investigatori italiani), hanno chiamato, sono entrati nel bar e il cassiere
li ha accompagnati a un tavolino riservato da un certo Aziz che il cassiere
sembrava conoscere molto bene.
Qui i due
marocchini hanno consegnato i loro passaporti ad Aziz, hanno pagato circa
1000 dinari ciascuno (quasi 850 euro), poi Mohamed Boaziz ha dato loro
appuntamento per la sera nei pressi della stazione centrale dove un austista
su furgone bianco (tipo Fiat Ducato, primi due numeri di targa 76... Tunisi)
li ha prelevati e portati dalle parti di Kelibia dove con un altro centinaio
di nordafricani si sono imbarcati su un peschereccio. Il trafficante Aziz
è stato descritto dai due testimoni come "un uomo sui 45 anni,
alto, robusto, senza barba e baffi". Quando Aziz se n'è andato
dal Bar Paris, i due marocchini l'hanno visto salire su una Mercedes grigio
metalizzata nuova di zecca e hanno preso il numero di targa (99... Tunisi)
che adesso è negli archivi della nostra polizia.
Dagli interrogatori
di una trentina di tunisini e di algerini e di marocchini ascoltati dopo
il loro sbarco in Sicilia è stato possibile individuare - e solo
a Tunisi - una mezza dozzina di "luoghi" dove i clandestini
approdano sempre prima di iniziare la loro avventura verso l'Europa. A
parte il Bar Paris dove ha la base anche un certo Khala che trasporta
i suoi "clienti" al mare con un Ford Transit, si comincia dall'Hotel
Wrha che è a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria.
Nel bar dell'albergo alcuni marocchini hanno avvicinato un loro connazionale
che poi li ha dirottati sui capi dei clan tunisini. Il "mediatore"
si chiama Mohamed Rae, un trentenne che viaggia sempre su una Punto blu.
E si continua con altri punti di incontro.
Uno è
il Bar Barcellona che è proprio all'interno della stazione ferroviaria
di Tunisi, l'altro è il Bar Narawes che è alla periferia
est della città, un altro ancora è la sala giochi Wazir
su Avenue Cartage. E poi c'è un negriero che offre indirizzi e
nomi e che ha un negozio di frutta e verdura dentro il supermercato Bir
Gasaa, ce ne sono altri due che stanno a pochi chilometri dalla città,
a Rades e a La Goulette. Un terzo vive a Ben Arous. I naufraghi hanno
raccontato ai poliziotti e ai carabinieri tutto quello che sapevano sui
trafficanti, di quello di Ben Arous hanno perfino dato l'indirizzo: "Abita
in via Hai El Melhab...".
Dopo le informazioni
ricevute sono partite le indagini. E si sono identificati i capi di alcuni
clan. Il più potente e il più ricco è Baddar Driss
originario della città di Menzel Bouzelfa. Poi c'è un certo
Ridha Ouled (le forze di polizia italiane hanno già accertato che
ha organizzato numerosi viaggi anche quest'estate), c'è Jamil Kouldi
che spesso fa la spola tra la Tunisia e l'Italia per controllare da vicino
i "capitani" delle barche, poi c'è Samir Sfaxi, poi ancora
quell'Aziz e quel Khala che ricevono sempre al Bar Paris di Tunisi e un'altra
decina di trafficanti i cui nomi sono ancora coperti dal segreto. Di tutti
questi mercanti di schiavi si conoscono i movimenti, i numeri dei loro
cellulari, anche qualche contatto in Italia dove vivono alcuni loro compari.
Ma non è
solo la capitale tunisina "centro" di smistamento e di incontro
tra i trafficanti e i clandestini provenienti da tutto il Magreb e dall'Africa
nera. Ci sono covi tra Nabeul e Hammamet ("Ho abitato vicino alla
residenza dell'onorevole Craxi prima di incontrare certe persone a Tunisi
e poi imbarcarmi per la Sicilia", ha confessato un algerino agli
investigatori), a Monastir, al nord vicino a Biserta e più a ovest
quasi al confine con l'Algeria.
Viaggiano
su fuoristrada i trafficanti di Sousse e di Sfax. Li vedono su quei gipponi
giapponesi tirati a lucido quando arrivano in veri e propri "campi",
centri di raccolta dove ammassano ogni settimana migliaia e migliaia di
clandestini. Campi che sono vicino a Sousse e vicino a Sfax. I negrieri
di Sousse sono stati più volte visti "al lavoro" al Bar
Tunis (qui un tale Rachid trasporta magrebini e liberiani in un casolare
abbandonato a un centinaio di chilometri e poi li affida ad altri trafficanti
che li accompagnano sui pescherecci), i negrieri di Sfax invece alloggiano
all'Hotel Bali ma fanno affari di solito al Bar Colombia che è
al centro di piazza Matra.
I punti di
imbarco lungo i 1200 chilometri di costa tunisina sono tantissimi, ma
i capi di questi clan individuati dalle nostre polizie prediligono da
qualche mese le coste settentrionali per trasportare i loro carichi. Il
luogo preferito per ora sembrerebbe il paese di El Haouaria che è
a due passi dalla punta di Capo Bon, la roccia africana più vicina
alla Sicilia. Un altro punto di partenza è a pochi chilometri da
Kelibia, il porto dove arrivano d'estate anche gli aliscafi che salpano
da Trapani e attraversano il Canale di Sicilia in quattro ore scaricando
frotte di turisti. Si chiama Korba un altro "porto" dove i trafficanti
di schiavi fanno partire le loro barche. E' tra Menzel Temine e Nabeul.
Poi i pescherecchi con la "merce umana" lasciano gli ormeggi
anche da La Goulette, il porto di Tunisi. Ma anche qui le motovedette
della Marina non avvistano mai le barche dei negrieri.
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Capo
Russello: molti hanno sentito annegare i clandestini il racconto - Quelle
urla senza risposta
di AGOSTINO SPATARO
Ancora una tragedia sulle spiagge della Sicilia, nelle acque di questo
Mediterraneo divenuto un crudele fossato che separa le genti, invece che
un luogo fecondo di pace, di cooperazione e di scambi vantaggiosi. Nell'incantevole
baia di Capo Russello sono morti quindici lavoratori africani, fra i quali
alcuni bambini. Molti si sono salvati a nuoto o aggrappandosi agli scogli;
diversi risultano ancora «dispersi». La tragedia non s'addice
a Capo Russello. Qui la natura ha fatto le cose in grande: una striscia
di sabbia bagnata da un mare di un azzurro lindo, incastonata fra un'alta
scogliera di marne di un bianco abbagliante e da una montagna di fragili
argille sulla quale si erge, solitario e lesionato, il vecchio faro. Un
posto da sogno violato dalla realtà di sconsiderati programmi di
fabbricazione, da costruzioni abusive che allungano la loro ombra funesta
fin sul bagnasciuga. Qui come altrove, si è costruito a ridosso
della costa senza consultare, e rispettare, il «genio del luogo»
(ovvero la natura), con la compiacenza d'amministratori senza scrupoli
e di tecnici ipocriti ed ingordi. Su questa bellissima spiaggia non esiste
un albergo; tutti gli spazi sono stati riempiti da decine e decine di
case pretenziose (pomposamente chiamate villini). Abbondano anche i rifiuti
cosiddetti «urbani», abbandonati da gente inurbana che usa
il bene pubblico come se fosse una pattumiera a cielo aperto. Sotto il
faro c'è il porticciolo ricolmo di barche e barchette da diporto.
Qualcuna è anche più lunga di quella carretta strapiena
d'immigrati africani. Dal molo allo scoglio della tragedia vi saranno
circa 50 metri e il mare era ritornato calmo, eppure nessuna di quelle
barche si è mossa per andare incontro a quelle grida disperate
che, nel buio, imploravano aiuto. Qualcosa di tremendo è già
successo nel mare di Pozzallo e, a quanto pare, non è servito a
nulla. Là, per la tenace solerzia di un giornalista de "La
Repubblica" furono rinvenuti i corpi di circa 130 giovani asiatici
sepolti nella carcassa di una nave fatiscente. Da mesi si sapeva di arti
umani che venivano a galla, sovente impigliate nelle reti dei pescatori.
Addirittura - si lesse - di un teschio esposto sopra il banco di un venditore.
Eppure nessuno vide, nessuno si smosse per raccogliere quelle raccapriccianti
verità sussurrate. Lo scandalo esplose e le inchieste partirono
solo dopo che giunse a Pozzallo quel cronista dal continente. Memori di
cotanta ignavia, s'impone un chiarimento su quest'ennesima tragedia della
povertà africana; sulle responsabilità, politiche e d'altra
natura, verificatesi lungo tutto il «viaggio» di questa massa
d'infelici, dall'imbarco all'approdo. Il governo e la sua maggioranza
parlamentare (compresi i 61 eletti in Sicilia) si preoccupano tantissimo
di placare le ire razziste di Bossi (e di Fini) mentre trascurano che,
da tempo, la costa meridionale siciliana è divenuta il punto principale
di approdo dei flussi d'immigrazione clandestina verso l'Italia e l'intera
Europa.
Un'adeguata dotazione d'uomini e mezzi e un più alto grado di efficienza
operativa avrebbero potuto evitare o comunque ridimensionare il gravissimo
bilancio di morti a Capo Russello. Questa è l'opinione di tante
persone del luogo che, per ore, hanno vissuto impotenti allo svolgersi
di questa tragedia umana. Con struggente, intimo rimorso. Come uno dei
tanti curiosi, mi sono recato in quella spiaggia e nella piazza di Realmonte
ad ascoltare i loro racconti, le verità sussurrate che, forse,
mai verranno trascritte in un verbale delle autorità inquirenti
(sono state aperte due inchieste).
«Era da poco passata mezzanotte e c'era stato un breve ma intenso
fortunale, qui, dalla terrazza del ristorante e dalla spiaggia sentivamo
le urla, non erano lamenti ma grida disperate, incomprensibili, di gente
che invocava aiuto. Provenivano da quello scoglio, là vicino; abbiamo
subito avvisato le forze dell'ordine e la capitaneria di Porto Empedocle.
Verso le due e mezza sono arrivati per verificare l'attendibilità
delle telefonate. Giunsero le fotoelettriche dei vigili del fuoco che
rischiarano ad intermittenza l'agghiacciante scena: decine e decine di
uomini aggrappati agli scogli o al relitto e corpi vaganti nel mare. Fra
noi e loro cerano circa 100 metri; a metà c'è il braccio
del molo del porticciolo. La tempesta era passata, da tempo. Nessuno fece
nulla per trarli in salvo. Soltanto un ufficiale prese l'iniziativa di
"confiscare" una delle tante barche e ne trasse in salvo alcuni.
Più che attaccamento al senso del dovere, il suo è stato
un esempio d'alta umanità che, però, non venne seguito da
nessuno dei numerosi residenti che "espongono" la barca a Capo
Ruscello. Quante volte questi "lupi di mare" hanno sfidato la
tempesta per andare a pesca di triglie o di aiole. L'altra notte, nessuno
se l'è sentita di sfidare un mare, ormai placato (il fortunale
durò poco più di 15 minuti). Forse perché non erano
triglie, ma uomini disperati che urlavano in una lingua incomprensibile.
Qualcuno si giustificò dicendo che non si comprendeva il significato
di quelle urla, come se per intendere una richiesta d'aiuto dovrebbe essere
necessario il traduttore. La lingua del dolore è universale e tutti
la capiscono, quando la si vuol capire. Trascorse ancora molto tempo prima
che giungessero le motovedette da Porto Empedocle, distante circa 6 chilometri
in linea d'aria. Ormai non si poteva fare altro che raccogliere i corpi
di quei sventurati...».
Non so se questo racconto corrisponda al vero. Sembra incredibile. Le
due inchieste dovranno accertare anche questo. C'è bisogno della
verità totale, per rendere giustizia ai morti e garantire sicurezza
ai vivi.
Agostino
Spataro
(
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L´accampamento
dei disperati in attesa della barca promessa
di
ATTILIO BOLZONI
Il
villaggio di Zuwarah è oggi il principale porto d´imbarco
utilizzato dai mercanti di schiavi - Una striscia di deserto affacciata
sul mare al confine tra Libia e Tunisia: è da qui che salpano le
carrette che puntano verso l´Europa.
Oggi i boss non hanno nemmeno più bisogno degli scafisti: vendono
la nave agli immigrati e poi la traversata è fai-da-te.
Viaggiano
anche per settimane su sgangherati furgoncini e nei cassoni dei camion,
trasportati come bestie, poi ammassati in quel caravanserraglio che è
diventato il villaggio di Zuwarah. Sotto le tende e sotto le palme aspettano
il loro «capitano» e la nave promessa. Pagano sempre in dollari
e muoiono sempre in mezzo al mare.
E´ l´ultima rotta dei mercanti di uomini quella libica, è
l´ultimo passaggio per l´altro mondo. Dopo le coste turche,
dopo i porti maltesi e quelli tunisini, partono soprattutto da questo
deserto i carichi di clandestini. L´accampamento è controllato
da boss di Sfax e di Capo Bon, ci sono complici libici naturalmente, ci
sono bande centro africane che gestiscono i viaggi via terra, ci sono
intermediari egiziani che dirottano migliaia e migliaia di schiavi provenienti
anche dall´Oriente. Tutti o quasi tutti approdano ormai in fondo
all´Italia, è in Sicilia che sbarcano, è questo il
fianco scoperto dell´Europa dopo la grande invasione dai Balcani.
Quelli della Guardia Costiera di Lampedusa se n´erano accorti almeno
dal gennaio scorso. Da qualche tempo intercettavano velocissimi gommoni
al largo, erano scafi grigi fabbricati a Tripoli. Facevano proprio come
gli albanesi alcuni anni fa, invece di attraversare l´Adriatico
li facevano sfrecciare sulle onde del Mediterraneo. Piccoli trasporti,
dieci o dodici o quindici passeggeri per ogni traversata con il traghettatore
che li scaricava sugli scogli (o in acqua) e poi se ne tornava indietro.
Un paio di volte hanno preso lo scafista e sequestrato il gommone, i clandestini
- dopo aver fornito false indicazioni sul luogo di partenza - confessavano
agli agenti il porto di imbarco: era sempre quello di Zuwarah. Ma erano
prove generali quelle sui gommoni grigi. Dopo i piccoli carichi di schiavi
è partito il commercio alla grande. E senza eccessivi rischi per
i mercanti.
Il business funziona pressappoco così. Li fanno arrivare fino a
Zuwarah, li tengono lì per qualche giorno, poi a un gruppo di ottanta
o cento o centodieci clandestini fanno comprare un barcone, nominano uno
di loro comandante dell´imbarcazione, gli mettono in mano una carta
nautica e mollano le cime. Incassano fino a 100 mila dollari, circa 1000
dollari a persona per un «viaggio tutto compreso» senza utilizzare
scafisti e senza il pericolo di farsi arrestare dalla polizia italiana.
Si sono fatti furbi gli schiavisti, godono protezioni in tutto il Magreb,
sono svelti nel cambiare rotte e strategie. Si sentono padroni nel Mediterraneo.
Negli ultimi due anni le loro basi operative sono state velocemente spostate
da Gibilterra fino ad Alessandria d´Egitto e oltre ancora. Nel 2000
salpavano dalle coste turche le loro navi e si dirigevano verso la Calabria,
pochi mesi dopo è diventata Malta il centro di ogni traffico con
le barche che scaricavano migliaia di clandestini sulle coste del Ragusano,
nel 2001 e nel 2002 hanno scelto come punti di imbarco i porti e le baie
della Tunisia e per ultimo quella striscia di deserto al confine libico.
I capi sono quasi tutti tunisini e operano quasi indisturbati in molti
Paesi. Raccontava qualche mese fa Zina Saidi, una tunisina di Kairouan
che per un po´ di tempo ha fatto commercio di schiavi tra la penisola
di Capo Bon e La Valletta: «Nelle polizie di alcuni paesi e in tutti
quei reparti che dovrebbero sorvegliare il mare ci sono uomini senza scrupoli,
molti sono venduti... a volte incassano una tangente per far passare i
pescherecci, altre volte si mettono d´accordo con i trafficanti
per portare via tutti i soldi ai clandestini». La donna un paio
di anni fa si è pentita, a Malta i suoi ex soci l´hanno sequestrata
mozzandole le orecchie, è riuscita a fuggire in Italia dove ha
rivelato nomi e storie di alcuni trafficanti di «esseri umani».
A Tunisi molti di loro sono ancora liberi. Scorrazzano dalla capitale
fin giù a Sousse o a Sfax sui loro fuoristrada per contattare «mediatori»,
ricevono in bar della capitale o in lussuosi alberghi sulla costa di Hammamet
gli «ordini» per questo o quell´altro imbarco, gestiscono
anche loro accampamenti dove raccolgono gli schiavi prima di caricarli
sulle loro carrette. Uno dei grandi campi tunisini è nella laguna
di Korba, campagna rigogliosa e fenicotteri a centocinquanta chilometri
da Tunisi. Il capo dei capi dei negrieri di quella zona e forse dell´intera
Tunisia è Baddar Driss, un malavitoso di Menzel el Bouzelfa che
chiamano «lo sfregiato» per una vistosa cicatrice che segna
la sua guancia destra. La sua ciurma è là nella laguna,
i suoi luogotenenti sono sparsi dal nord fino al deserto salato intorno
a Tozeurs. Lui fa traffico di schiavi solo dalla Tunisia, molti dei suoi
compari vanno avanti e indietro da Malta. Come faceva fino a poco tempo
fa «Donna Provvidenza» - vero nome Fatma Kalloufi - un´altra
tunisina che aveva preso casa e perfino marito a La Valletta proprio per
smistare carichi di egiziani e pakistani verso la Sicilia. E´ andata
male a «Donna Provvidenza». Dopo una cinquantina di sbarchi
è stata arrestata e rispedita a Tunisi. Però non si sa bene
che fine abbia fatto.
Addosso ad alcuni negrieri della sua cosca hanno trovato un po´
di carte. Nomi di italiani. Numeri di telefono italiani. Indirizzi italiani.
E´ cominciata così un´indagine sulle coperture che
i trafficanti di uomini del Magreb potrebbero avere anche qui, in Sicilia
e nel nord Italia. Fino ad ora si è scoperto poco e niente, solo
vaghi sospetti su presunti fiancheggiatori, personaggi comunque fuori
dal grande giro del crimine organizzato. In tutta questa vicenda del traffico
internazionale di schiavi si può affermare - almeno al momento
- che le nostre mafie e soprattutto quella siciliana siano totalmente
disinteressate. Una spiegazione convincente c´è. Ai disperati
che riescono ad approdare sulle nostre coste non c´è da spremere
più nulla.
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Clandestini,
stragi in mare - Affonda nave diretta in Italia: 12 morti e 56 dispersi
di
Enrico Bellavia
Il
peschereccio era salpato dalla Libia con a bordo 120 immigrati. È
colato a picco a soli 30 chilometri dalla costa - La carretta aveva preso
il largo nonostante le proibitive condizioni del tempo: 52 le persone
salvate - L´imbarco avvenuto a Zuwarah: secondo la polizia di Tripoli
la meta era Lampedusa - Soccorsi difficili nella tempesta: scarse speranze
di trovare altri sopravvissuti
PALERMO
- Puntavano verso l´Italia lasciandosi alle spalle la costa di Zuwarah,
quel punto di confine tra la Libia e la Tunisia che è da mesi ormai
il porto di partenza dei viaggi dei disperati. Puntavano verso l´Italia,
sfidando le onde di un mare in tempesta che li ha travolti e inghiottiti.
Cinquantadue immigrati clandestini sono scampati al naufragio, 12 sono
certamente morti. Altri 56, nella pietosa attesa di un recupero impossibile,
sono ancora dati per dispersi. Una tragedia e non la sola. Sempre nella
giornata di ieri, sulle coste del Sahara occidentale, sono stati recuperati
i corpi di altri 32 clandestini, annegati sulla rotta che dal Marocco
porta alle Canarie (vedi riquadro a lato).
Il naufragio della nave diretta in Italia è avvenuto invece in
acque libiche a una decina di miglia dalla costa, a 150 dall´isola
di Lampedusa, quello che era con ogni probabilità il primo traguardo
del loro viaggio. Quel fianco sud d´Europa che è meta e approdo
per sbarchi che proseguono senza sosta. Prima però erano le notti
di mare calmo e cielo limpido, quelle buone per tentare la sorte. Adesso
la posta richiede una sfida continua con le onde e le raffiche per sfuggire
ai controlli e agli avvistamenti dei pattugliatori.
La notizia della sciagura, l´ennesima, è stata diffusa con
poche scarne righe dall´agenzia governativa Jana che ha rilanciato
un laconico comunicato della Commissione generale popolare libica per
la giustizia e la sicurezza.
Incerta anche la data del naufragio. Fonti libiche parlano della notte
di sabato, ma in Italia si sospetta che il peschereccio sia colato a picco
già alcuni giorni addietro e che la notizia sia stata diffusa solo
a operazione di soccorso cessate. In questo caso i numeri della tragedia
sarebbero da considerarsi definitivi.
I 120 nordafricani che per stessa ammissione delle autorità della
Jamahiria erano diretti in Italia erano stati imbarcati su un peschereccio
per un viaggio che è la replica di tanti altri lungo una rotta
che i trafficanti di uomini hanno sperimentato quando hanno visto precluse
altre possibilità. La Libia, come hanno confermato anche le nostre
autorità sulla base delle ricostruzioni dei superstiti di altri
naufragi, è ormai da tempo luogo di smistamento delle carovane
che risalgono via terra l´Africa con il carico di clandestini.
Dalle coste di fronte alla Sicilia partono i viaggi diretti con imbarchi
che costano dai 300 a 1000 dollari. Nelle acque di fronte alla Sirte avvengono
anche, ma in misura sempre più ridotta, i trasbordi dalle grandi
navi che solcano il Mediterraneo ai pescherecci, alle carrette, più
raramente ai gommoni, che tagliano il canale per l´ultimo tratto
del viaggio. La spia che quella fosse l´ultima trovata dei nuovi
negrieri, quando sulle spiagge di Lampedusa sono andati a sfasciarsi un
paio di motoscafi che avevano il marchio di fabbrica della Libia. È
cominciato così un traffico continuo che ha spinto Gheddafi a chiedere
all´Unione europea l´apertura di un negoziato congiunto con
i paesi del Nord Africa per una rete di controlli più intensi.
Del peschereccio colato a picco non si conosce neppure la nazionalità.
Probabile che fosse tunisino. È già accaduto in passato,
lungo questi mesi di cronache di sbarchi, più di 12 mila in Sicilia
quest´anno, con gli indici sempre in aumento mentre calano progressivamente
gli arrivi dalle coste albanesi dopo l´infittirsi dei presidi lungo
il canale d´Otranto. Bilanci drammatici con 50 morti a settembre
in due viaggi che si sono conclusi in sciagure al largo delle coste agrigentine
e ragusane.
È certo invece che la tragedia in acque libiche sia stata causata
dal maltempo, da un mare che ancora ieri ha raggiunto forza sei e reso
difficilissimo il soccorso di un marinaio italiano feritosi a bordo di
un peschereccio, uno dei pochi che ha sfidato il mare incrociando a 80
miglia da Lampedusa.
Lo stesso comunicato che annunciava la disgrazia ha riferito che ad occuparsi
dei soccorsi è stata la guardia costiera libica che ha aperto un´inchiesta
per stabilire la nazionalità di vittime e superstiti e, precisano
le autorità, anche il porto di partenza.
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