Conversazione in Sicilia
con Andrea Camilleri
Intervista di Tonino Calà e Michele Morreale
commento di Agostino Spataro


A proposito del comunismo, dell’essere comunista, io che vengo dalla tradizione socialista, quando sento usare questo appellativo come un’offesa, con disprezzo, lo sai che mi sento onorato di essere divenuto comunista?
Lo dico perché in questa Festa dell’Unità, qui a Mussomeli, abbiamo ricordato Berlinguer, a venti anni dalla morte, con una brochure che per noi ha grande valore culturale, politico, etico, anche per ricordare che il comunismo italiano non era quello sovietico. Cosa ne pensa? Forse, oggi, non c’è più bisogno di dichiararsi comunisti?

Io penso di sì. Anche oggi che ci siamo venuti a trovare in una certa difficoltà. A me Giovanni Berlinguer chiese di scrivere la prefazione al libro, diciamo così, del “Correntone”, non so se l’avete letto. Io quella prefazione l’ho scritta elencando uno per uno quelli che, a mio parere, erano stati certi errori del partito, di cui, per me, il principale, è stato un progressivo distacco della dirigenza dalla base, fino a creare una sorta di frattura e d’incapacità nella comunicazione. Noi, che eravamo tutt’uno con la base, abbiamo iniziato una sorta di diversificazione dalla base. Quando la base esprimeva, per esempio, il proprio candidato che era quello nel quale aveva fiducia e ci accostavamo ad eleggere, abbiamo cominciato a paracadutare candidati.

O come il distacco grandissimo, tremendo secondo me, che siè creato tra il sindacato e il partito.

Ma, scusate, cos’è il sindacato? Il sindacato sono i nostri uomini, i nostri iscritti. Che significa che c’è un distacco? Ci può essere una conduzione politica che non è una conduzione sindacale, questo è ovvio, lo vedevamo con Di Vittorio, l’abbiamo visto con Lama, figurati… Non doveva essere una cinghia di trasmissione, d’accordo, ma neanche bisognava tagliare la cinghia.

Secondo lei, questo vale solo per il sindacato?

Noi dobbiamo confrontarci quotidianamente con la realtà. Allora, se io sento che un amico si sta allontanando da me, perché lo sento, se sono un fesso non mi chiedo perché si sta allontanando da me, se sono uno che si confronta con la realtà gli dico: “Senti un po’, ma perché ti stai allontanando da me? Mi vuoi spiegare le tue ragioni?”. Tutto qua, è di una semplicità estrema. Se noi non gli chiediamo le ragioni, ce lo ritroviamo a Forza Italia, com’è avvenuto.

Vero, vero.

E’ avvenuto a Bologna e a Sesto San Giovanni, che ora abbiamo recuperato.

Volevo dirle: io ho un fratello che è segretario provinciale della Fiom di Palermo, che ha la tessera del partito, all’interno del quale ha incontrato difficoltà nell’affrontare ogni giorno i problemi reali di quella grande città: crisi della Fiat, cantieri navali, ecc. La cosa è assurda. Allora, mi chiedo perché questo succede?

Perché succede? Chiediamocelo!

Forse, per il distacco della dirigenza?

Il distacco totale della dirigenza c’è. Quando il povero Nanni Moretti dice: “Guardate che con questa gente non si vince”, non è che dice una bestemmia, dice una mezza verità. Purtroppo! Perché la concezione della politica non è più berlingueriana, è una concezione di politica d’abord, come diceva il buon Pietro Nenni, ogni giorno viviamola, ogni giorno con gli accordi del giorno, non è modo di fare politica. Io non posso sentire un mio alleato che dice:“Beh, insomma, le leggi di Berlusconi non sono tutte da buttare via”. Quale? Quale, per favore? Il conflitto d’interessi lo manteniamo? La Legge Cirami la manteniamo? Il falso in bilancio lo manteniamo?

Ha fatto una gaffe enorme...

Dice che ci fa guadagnare voti sul versante di Forza Italia. Non me ne frega niente di questa gente che porta danno alla nostra causa.

Allora bisognerebbe che ci fosse un coordinamento forte, perché uniti si vince, su questo non c’è dubbio. Non è che possiamo dire: “Andatevene o noi ce ne andiamo per i fatti nostri”. Siamo piccole unità frazionate, piccole o medie unità frazionate. Ma non bisogna parlare a vanvera perché altrimenti l’elettorato non capisce e perdiamo proprio le coordinate.

Lei comunque spera in un risveglio, le sembra che le cose stiano cambiando?

Sì, è chiaro che le cose stanno cambiando, ma stanno cambiando più per implosione che per nostro merito. Mi si dice: “Ti sei avvicinato troppo ai girotondini”. Rispondo: perché i girotondini rappresentano, hanno rappresentato almeno per un certo periodo, una sorta di spinta, di pungolo che veniva dato. Non è che i girotondini erano gente equivoca, erano gente che mirava a pungolare i nostri politici.

Anche se non possono certo sostituire i partiti, la politica... un pungolo comunque ci voleva.

Ma non lo volevano nemmeno, tant’è vero che sono morti nel momento in cui alcuni dei loro esponenti sono passati a fare politica.

E quello è stato un errore.

Cioè a dire: i girotondini erano un’altra cosa. Se io la mattina mi sveglio e bevo una tazza di caffè per svegliarmi meglio ed essere più attivo, non è che la tazza di caffè fa parte del circolo del mio sangue, lo metto io in circolo: questo era il girotondo. Non era il corpo della persona, era qualche altra cosa: un additivo, che veniva dato perché ti facesse agire meglio. Tutto qua.

La storia andrebbe narrata, raccontata e basta. L’autore deve star lì a raccontare i fatti e i personaggi?

Me lo viene a raccontare a me che sto cercando di tirarmi fuori un romanzo con la scomparsa dell’autore. Addirittura l’autore non fa altro che fornire una serie di documenti, rigorosamente finti naturalmente, al lettore perché lui se ne faccia il suo romanzo. È il massimo che uno può fare come
autore: scomparire.

Non pensa che questo dilagare del “giallo” come genere lo stia ricacciando nella para-letteratura com’era all’inizio del secolo?

Non lo so. Il fatto è che non credo che la quantità escluda la qualità. Ovvero, una volta che siè aperta questa strada del giallo, bisogna che il lettore accorto, che poi in Italia i lettori sono pochi, sappia scegliere.

Tutto qua. Sa, il problema vero dell’Italia non sono i gialli, ecc. Il problema vero è che in Italia non si legge. Lo so io, che sono oggi, probabilmente, l’autore più venduto in Italia.

Quando io dico vendo dieci milioni di copie, il che è vero, non è che si tratta di dieci libri di un milione di copie l’uno, si tratta di venti libri a cinquecentomila copie l’uno, quindi si abbassa la quantità dei lettori. I lettori italiani non superano le cinquecentomila unità, che sono una miseria.

Allora perché io sono l’autore più venduto? Perché ho la fortuna che i miei libri continuano ad essere in catalogo, quindi è un plotone che avanza tutto unito. Altrimenti col cavolo che si raggiungono queste tirature.

A parte la difesa che a proposito del giallo di genere ha affidato a Montalbano in un racconto in cui lui telefona all’autore, è mai intervenuto poi con interviste contro una certa critica che, diciamo, storce il naso di fronte al genere?

No. Mai. Io non rispondo mai alle critiche negative e non rispondo mai alle critiche positive.

Ognuno è libero di pensare quello che crede su quello che scrivo e, soprattutto, su come lo scrivo.

Come io sono libero di scrivere libri e il lettore è libero di comprarlo o non comprarlo.

Non intendo mai fare autodifese, né ne ho mai fatte.

Forse le imputano pure di non farle rispetto all’arte e alla letteratura.

Sì, ma vede il problema è molto serio e non può essere affrontato con polemiche da quattro soldi. Il problemaè: che cos’è la letteratura?

E qui la domanda diventa molto vasta e ci sono molte difficoltà di risposta.

In Italia abbiamo un concetto sacrale della letteratura: cioè che la letteraturaè per pochi, che l’autore deve costruire, come minimo, la cattedrale di Notre Dame de Paris, anche quando scrive un “romanzucolo”.

E, quindi, chi non ha la pretesa, come me, di costruire la cattedrale di Reims, ma di costruire una piccola, meravigliosa, godibilissima chiesa di campagna, allora non è preso sul serio.

Quindi diciamo che non è cambiata la sua posizione

Sì, continuo a essere coerente con quella idea. Mi spiego. In Francia abbiamo l’esempio di un George Simenon che diventa famoso per aver scritto la serie di Maigret, ma nello stesso tempo scrive dei “romanzi romanzi”, come li chiama lui, che sono straordinari e sui quali si appassionano scrittori di tendenze opposte, come possono essere Luis Ferdinand Celine o André Gide, che non hanno remore nel riconoscergli, diciamo, l’altezza letteraria delle sue opere. Tant’è vero che rientra nella Pléiade. Qua in Italia, sempre per questo concetto sacrale della letteratura, la difficoltà aumenta. Ora, la cosa che più mi colpisce, essendo marxista da sempre, da quando sono nato e non lo sapevo, è non riuscire a capire come nei miei riguardi si stia verificando l’auspicato fenomeno gramsciano di uno scrittore nazional-popolare. Perché mi legge gente che non ha mai letto nessun libro; mi legge il piccolo operaio, mi legge anche una minima parte di intellettuali. Nessuno ha considerato sociologicamente la mia letteratura. E invece avrebbe interessato me per primo uno studio di questo tipo. Invece, una parte dei critici mi ama, una minima parte; la maggior parte dei critici mi disprezza (non ci sono altre parole da poter usare), anche se sono critici marxisti.

Quindi il fatto, per esempio, che un Pietro Citati non si occuperà mai di lei non …

Mi lascia completamente indifferente, amico mio! Non è che si scrive per i critici, si scrive per il pubblico. Io scrivo per i miei lettori, non scrivo per queste persone.

Io sono un cantastorie. Il cantastorie, se è bravo, raccoglie intorno a sé un pubblico che lo sta a sentire, poi si leva la coppola e passa in mezzo alla gente.

Più gente l’ha ascoltato, più soldi riceve. La comunicazione è stata tale, specie negli ultimi anni, che già dieci milioni di lettori risultano pochi. Stare lì a dire “questo è un romanzo per pochi intellettuali, per poche persone” ... chi lo dice che questa sia la funzione della letteratura?

Come spiega l’atteggiamento dei critici marxisti? La posizione del professor Alberto Asor Rosa, ad esempio?

Questa è una cosa che mi domando sempre. Il nome giusto della persona giusta. Ma non mi ha mai letto, perché, entrando in contraddizione con se stesso, pensa che il successo di pubblico sia un segno di scarsa qualità letteraria.

Per un marxista, questa non è una contraddizione? Pensare che il popolo
sia…

Certo che è una contraddizione, è quello che sto dicendo. Ma non è che ce ne facciamo un cruccio.

Maestro, la cultura è molto più cultura nel momento in cui non cadiamo in queste miserie…Tuttavia, non è così da sempre. C’è un problema di riconoscimento?

Non è un problema di volere dei riconoscimenti…

No, non riconoscimenti sul piano della gratificazione personale, ci mancherebbe.

La mia posizione nei riguardi della critica, delle critiche negative nei miei confronti è assolutamente serena, obiettiva. Torno a ripetere: io sono stato negli anni Cinquanta un comunista vero, vero, e non rinnego nulla del mio passato.

Dopo di che, a forza di colpi di maglio in testa, mi avete fatto entrare in testa l’idea della democrazia intesa come l’intendiamo in Europa e in America. Allora io sto al gioco, se sto al gioco io sono libero di scrivere quello che penso, gli altri sono liberi di concordare con me, o di non concordare; l’unica cosa che non tollero è quando parlano di me senza avermi letto, o il dileggio: perché scrivere è comunque una fatica.

Non un gran fatica, per carità!

E’ sempre meglio che andare a fare il pirriaturi (picconiere), è sempre meglio che andare a scavare in miniera, è sempre meglio che portare la roba a spalla ai mercati generali, quindi siamo già personaggi estremamente fortunati, ma fortunati a livelli mostruosi.

Se io non la dimostro, questa fatica è per virtù mia. Poiché la mia aspirazione maggiore è la trapezista. Voglio dire, voi andate al circo e vedete la trapezista: bella, elegante, truccata, con il sorriso sulle labbra che esegue un triplo salto mortale. Non avvertite la stanchezza, la tensione, il nervoso, la fatica, l’esercizio quotidiano che c’è voluto per arrivare a questa leggerezza che vi fa godere in quel momento, perché, se
aveste minimamente coscienza del lavoro e della fatica che c’è dietro, voi non ve la godreste così in quei due minuti. Questo è il mio ideale di letteratura. Quindi parlo di fatica sempre relativa.

C’è un’altra cosa da considerare: io vengo dal teatro, da un’epoca teatrale nella quale tu facevi lo spettacolo, tu facevi Beckett per la prima volta in Italia, come ho fatto. Poi, l’indomani mattina, alle 8 andavi a comprare il giornale e c’erano le critiche: positive, negative, un macello. Quindi, io ho una certa mitridatizzazione nei riguardi della critica. Come scrittore, la mia grossa scoperta, sono i lettori… E quella è una cosa straordinaria. Come regista di teatro io ero abituato ad annullare il pubblico. Che si fa a teatro? Lo si annulla. Lo si mette al buio, noi recitiamo, gli attori recitano, poi alla fine ognuno dice la sua opinione. Ma rimane una moltitudine, un pubblico: il lettore è diverso.

Ho scoperto che il lettore ti scrive, ti telefona, ti parla: il lettore ha un rapporto diretto con l’autore, e allo stesso modo, come tu gli racconti la tua storia, lui vuole raccontarti la sua storia di lettore. Ora per me che sono curioso dell’uomo, di come parla, di come si esprime, dei problemi che ha, questa è una gratificazione immensa. Io ricevo centinaia di lettere al mese, tant’è che per farvi fronte mi sono dovuto prendere una segretaria.

Ho visto diversi siti dei fans…

Lascia perdere i siti! Io adopero il computer, non qui, non me lo sono portato, ma non è che ho internet, perché non voglio essere travolto anche da quello. Però la gente che ti scrive, che ti espone un problema…

Io rispondo a tutti, nei limiti del possibile. Ma ricevi lettere che ti fanno star male per due giorni. Ho ricevuto una lettera da una ragazza, che mi dice:“Ho 33 anni, sto morendo, sono malata terminale, non mi posso muovere dal letto. Grazie di avermi fatto sorridere qualche volta con i suoi libri”. C’è la firma, ma non l’indirizzo, così non ho potuto rispondere. Perciò questo rapporto diventa così forte.

Certo, quando scrivo non penso al lettore, ci mancherebbe altro, però io a loro mi rivolgo, cavolo!

A proposito dell’intervista all’Espresso, del discorso sull’ateismo nel quale ha citato anche suo padre, io sono d’accordo con lei sul discorso contro la religione, anhe perché la religione viene da religio. Dipende da un’idea astratta della divinità dietro la quale ci sono dei meccanismi di potere. Questaè una storia antica, lo sappiamo, mentre il discorso dell’ateismo, lei mi insegna, è una posizione filosofica inaccettabile, quanto meno inopportuna, forse illogica, nel senso che l’ateismo militante già è l’affermazione del suo contrario, che Dio esiste. La condizione laica della ricerca è quella più dolorosa. Ecco: lei come si pone di fronte a questo? La sua ricerca in rapporto al problema di Dio è ancora aperta o è un capitolo chiuso?

Guardi, per me è un capitolo chiuso. Anche se non bisogna confondere la religione con la religiosità.

Che sono due cose diverse…

Completamente diverse. Si confonde l’ateismo militante con il non credere personale, come il caso mio. Io non sono un ateo militante, solo che io non mi faccio convincere. Tutto qua. Come il povero Norberto Bobbio, che lo dichiarava onestamente, non è che ci sono problemi a riguardo. Che poi abbia San Calogero per i fatti miei …

Questo attiene a una bellissima superstizione e lì rimane. Giusto?

Ecco. Però il positivismo ottocentescoè stato devastante, per me, perché ha chiuso le strade, le fessure, gli spiragli, ad altre possibili strade di ricerca. Quindi io, come posso dire, sono un non credente possibilista.

Sembra un assurdo, un paradosso… ma è un paradosso al quale credo.

Siamo in molti così; io pure, sono una possibilista… mi sorge sempre qualche dubbio…

Guardi che qualsiasi atto che sia assoluto è sempre un atto di una presunzione mostruosa e, siccome ritengo di non avere una tale presunzione, dico: ma vabbé, per me le cose stanno così, poi… si vedrà.

Per altro, non ho alcuna ironia verso chi crede, semmai posso avere un pizzico d’invidia. Veramente. E poi ho un enorme rispetto per le fedi, contrariamente ad altri. Quando vedo nei paesi arabi quale forza, non parlo dei kamikaze, sia la fede per affrontare la spaventosa povertà quotidiana…

Certo è un oppio, ma nello stesso tempo è una forza, non so come dire, sembra una cosa contraddittoria….

Una curiosità che riguarda Montalbano. Una cosa soprattutto mi ha colpito: che lei avesse deciso di non descriverlo. È una scelta, oppure una forzatura della scrittura?

No, no, non ho saputo descriverlo.

Mi viene molto difficile descrivere fisicamente in tutti i miei romanzi. A settembre uscirà l’ultimo Meridiano, che farà impazzire di rabbia Dell’Utri: è uno di quelli che esce con Mondatori e lui ha scritto un articolo in cui dice che la bandiera rossa sventola su Segrate, figurati… Esce questo Meridiano che raccoglie romanzi non di Montalbano, e lei vedrà come, anche lì, mi risulti difficile descrivere fisicamente una persona, anche perché riflette esattamente come sono fatto io. Se uno mi domanda: «Si ricorda di me?» rispondo assolutamente no. Provi a parlare, quello parla e io me lo ricordo, ma fisicamente non ho tanta memoria…

E l’attore Luca Zingaretti è stato accettato da lei come personaggio?

Sì, perché sapevo che era un ottimo attore, era stato mio allievo.

Signora mia, l’attore gliela deve dare a bere, l’attore la deve imbrogliare, per due ore lei deve credere che quello sia l’unico Montalbano possibile e lui ci riesce.

Sì, in effetti, leggendo i suoi libri vediamo …

Poi di Montalbano ce ne sono tanti. Non è il mio personaggio: è più giovane, calvo, ha duemila cose che non non ci sono nel mio personaggio, però è talmente bravo da dare una possibilità al personaggio.

Il suo prossimo lavoro non potresti ambientarlo a Mussomeli, in questo nostro bel castello chiaramontano? Faresti felici noi e l’intera provincia di Caltanissetta.

Ma ci fate rappresentazioni?

Qualche concerto di musica medioevale e la rappresentazione del corteo storico. Il castello è stato restaurato di recente, non so se lo ha già visitato. Per Mussomeli è un volano importante per lo sviluppo turistico. Il nostro è un paese povero dell’entroterra siciliano. Siamo preoccupati per il suo futuro, molti giovani stanno andando via… Maestro, noi la vorremmo a Mussomeli per farle visitare il castello e la città che è molto bella.…

Verrò, verrò volentieri.


* estratto, a cura di Agostino Spataro, dalla video-intervista concessa in occasione della Festa de l’Unità del Vallone, Mussomeli (Cl), settembre 2004.

Leggi il commento di Agostino Spataro

Si ringraziano

Cettina Genco
Giuseppe Territo
Salvatore Ferro
Lino Maida

Per le foto

Felice Stagnitto

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