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LE VERE
RAGIONI DELLA GUERRA DI BUSH
di Agostino Spataro *
SOMMARIO
- Berlusconi con Bush per partecipare alla spartizione dei “dividendi
di guerra”;
- la criminalizzazione del movimento per la pace;
- l’Iraq di Saddam: da guardiano degli interessi occidentali a
“Stato canaglia”;
- la parodia della favola di “Alì Babà e i 40 ladroni”;
- incompatibilità fra petrolio e democrazia in Medio Oriente;
- i popoli arabi stretti fra dittature e oscurantismo religioso;
- non regge più la teoria manichea del “bene” e del “male”;
- le farneticanti accuse contro i pacifisti meglio si attagliano agli
accusatori;
- il ruolo della UE: cooperazione pacifica per lo sviluppo e la democrazia
nel mondo arabo;
- perché gli Usa hanno bisogno del petrolio iracheno?;
- la conferma dell’opzione petrolifera di Bush;
- Paesi del Golfo: riserve accertate per 700 miliardi di barili di petrolio;
- dal controllo delle risorse al dominio del mercato petrolifero;
- il monopolio delle risorse per condizionare lo sviluppo mondiale:
i rischi per la nuova Europa.
TABELLE
N. 1 “I primi 25 Paesi produttori di petrolio (anno 2001)”
N. 2 “I principali Paesi consumatori e importatori di prodotti
petroliferi”
N. 3 “I bilanci delle maggiori compagnie petrolifere”
N. 4 “Consumi di prodotti petroliferi per regione”
Berlusconi con Bush per partecipare alla spartizione dei “dividendi
di guerra”
Per
volontà di Bush, la guerra contro l’Iraq, purtroppo, appare inevitabile.
Tutti gli uomini e le donne amanti della pace hanno il dovere di battersi
fino all’ultimo istante utile per impedire questa guerra rovinosa,
ingiusta e impopolare. Se esistesse un sistema mondiale di consultazione
democratica scopriremmo che, nonostante il martellamento psicologico
della propaganda bellicista, i propugnatori di guerra sono una ristretta
minoranza che si sta imponendo sopra una sterminata maggioranza.
Il governo Berlusconi, discostandosi dalle posizioni responsabili dei
suoi principali partners europei e accantonando la tradizionale, saggia,
politica estera italiana di amicizia col mondo arabo e di “equidistanza
attiva” rispetto al conflitto mediorientale, ha voluto schierare
l’Italia a fianco di un alleato che, senza consultare nessuno,
ha già pianificato l’intervento militare che minaccia di effettuare
anche al di fuori dei sistemi Onu e della Nato.
Il dato davvero abominevole è che l’adesione del governo di centro
destra alla guerra di Bush non sembra ispirata, come si vuol fare credere,
a principi di legalità internazionale e di lotta al terrorismo, ma a
ben più torbide pretese di spartizione del “bottino di guerra”
o dei “dividendi di guerra” - dirà qualche elegantone -
per accaparrarsi una fetta del petrolio iracheno, quote di appalti per
ricostruire il Paese distrutto dalle bombe anglo-americane, ecc, ecc.
Gli italiani debbono sapere che in cambio di questo immorale ed improbabile
“bottino”, in ogni caso appannaggio per pochi, l’Europa
e l’Italia si dovranno fare carico delle pesanti conseguenze provocate
da questa sporca guerra, sia in termini finanziari sia di aiuti in favore
delle centinaia di migliaia di vittime innocenti e di almeno due milioni
e mezzo di profughi (stime ONU), la gran parte dei quali cercheranno
scampo verso le nostre città e paesi.
Come al solito, gli Usa non avranno di questi problemi visto che si
trovano a circa 14 mila km dal teatro di guerra.
La criminalizzazione del movimento per la pace
Come
detto, in questa guerra sono in ballo interessi forti ed inconfessabili
tali da non ammettere contestazioni “sul fronte interno”,
fino al punto di voler delegittimare l’amplissimo e composito
movimento che si oppone alla guerra di Bush e reclama la pace, anche
per evitare all’Italia di essere trascinata in questa pericolosissima
avventura.
Chi l’avrebbe mai pensato? Un governo, che si regge su una forte
componente cattolica, considera reato l’esposizione del vessillo
iridato del movimento pacifista internazionale e bolla come antipatriottici
e “nemici” quelli che, invece di guerra, chiedono pace,
per altro in sintonia con la ferma e solenne richiesta del Sommo Pontefice.
E’ in atto un tentativo gravissimo e senza precedenti, di delegittimare
e criminalizzare un movimento così ampio e trasversale che, superando
le categorie dell’appartenenza partitica, si propone come autonomo
punto di aggregazione e di mobilitazione della coscienza democratica
e civile del Paese.
E’ davvero bizzarro sentirsi accusati di fare il “gioco”
del dittatore Saddam o del terrorista saudita “Bin Laden”
da governanti che agiscono e predicano in sintonia e/o in continuità
con interessi che con questi due tristi personaggi hanno combinato affari
di varia natura, negli Usa come in Italia.
L’Iraq di Saddam: da guardiano degli interessi occidentali
a “Stato canaglia”
L’efferata
dittatura di Saddam Hussein è, prima di tutto, un problema del popolo
iracheno che, da circa 30 anni, ne subisce le più gravi conseguenze
politiche, economiche e dei diritti umani.
Fino a pochi anni addietro, per l’Occidente e per il vicino Oriente
islamico “moderato”, vale a dire ricco di petrolio, il regime
dispotico di Saddam non era un problema, ma una risorsa politica e militare
interpostasi, come diga antifondamentalista, fra la rivoluzione komeynista
e le ingenti riserve di petrolio dell’area del Golfo.
Ancor prima, fino all’instaurazione della dittatura personale
di Saddam Hussein, anche i movimenti e i partiti progressisti e di sinistra
hanno guardato, con interesse e simpatia, all’esperienza politica
irachena portata avanti da una coalizione di forze democratiche che,
seppure dominata dal partito Baas, aveva avviato (con qualche risultato)
un progetto di economia mista e di riforma della società e dello Stato
in senso laico e pluralista, che ambiva a proiettare in avanti la contraddittoria
esperienza panarabista nasseriana.
Oggi, l’amministrazione Usa definisce l’Iraq “stato
canaglia”, nel 1980 i governi degli Stati Uniti e di vari paesi
europei, incuranti delle degenerazioni morali e politiche del regime
iracheno, hanno armato e incitato Saddam a scatenare una disastrosa
guerra di aggressione contro l’Iran, durata otto anni, per bloccare
nelle paludi dello Shatt-el Arab l’ondata trionfante dello sciitismo
komeynista, che altrimenti sarebbe dilagata in tutte le petromonarchie
del Golfo e in primo luogo in Arabia Saudita.
Una parodia della favola di “Alì Babà e i 40 ladroni”
I
guai per Saddam sono cominciati con l’inaccettabile invasione
del Kuwait, da quando, cioè, incautamente, si è messo a “scherzare
con le cose serie”, ossia con le risorse energetiche del Golfo.
Per
detronizzare Saddam Hussein, viene esercitata, da oltre un decennio,
contro un Iraq sconfitto e territorialmente disarticolato, una forte
pressione militare, mediante bombardamenti quotidiani anglo-statunitensi,
aggravata da un sistema avvilente e sterile di sanzioni dell’Onu
che hanno soltanto esasperato la condizione alimentare e sanitaria del
popolo iracheno.
Nonostante tutto ciò, Saddam è sempre saldamente al comando del secondo
Paese più ricco di riserve di petrolio che - come vedremo - vengono
ritenute indispensabili dagli strateghi delle oligarchie petro-finanziarie
nordamericane.
In sostanza, si vuol fare la guerra non per punire le malefatte passate
o per disarmare Saddam, ma per rimuoverlo, con ogni mezzo, giacché la
sua permanenza al potere impedisce l’accesso delle compagnie Usa
alle riserve di petrolio irachene. Al suo posto andrebbe un governo
fantoccio, già confezionato dalla Cia, che aprirebbe le porte alla razzia
delle grandi compagnie.
“Apriti sesamo!”, ovvero una sconcertante parodia della
favola di Alì Babà - com’è noto ambientata da quelle parti - nella
quale si capovolgono i ruoli dei protagonisti: ad accaparrarsi del tesoro
non sarà più Alì, ma i 40 ladroni.
A quel punto, forse, non sarebbe più necessario continuare a cercare,
per deserti e ora anche per mari sconfinati, gli ordigni di distruzione
di massa di Saddam poiché, sotto un governo amico o addirittura sotto
un protettorato anglo-americano, tali armi non farebbero più scandalo,
giacché si ritroverebbero in compagnia d'arsenali chimici e batteriologici,
altrettanto micidiali, regolarmente posseduti da almeno 160 Stati di
questo pianeta che, a quanto sembra, non preoccupano nessuno.
Incompatibilità fra petrolio e democrazia in Medio Oriente
Si dice che la guerra è necessaria per abbattere la dittatura e instaurare
la libertà in Iraq. Anche questo argomento apre una catena di contraddizioni.
A parte i limiti sempre più degeneranti delle democrazie occidentali,
c’è da rilevare che, oggi, nel mondo si contano decine e decine
di regimi dittatoriali di varia coloritura politica, taluni sicuramente
peggiori di quello di Saddam.
Soprattutto, in Medio Oriente si registra un’alta densità di dittature
che, sotto forma di regni feudali e assolutisti o di repubbliche “ereditarie”,
dominano la vita politica ed economica di tutti i paesi ricchi di petrolio.
I popoli mediorientali sono le prime vittime di questo speciale regime
politico che appare segnato da una sorta d’incompatibilità fra
petrolio e democrazia.
In realtà, la dittatura è il sistema più efficace per controllare le
ingenti risorse energetiche e per garantire la continuità dello scambio
ineguale e corruttivo fra i poteri patrimoniali locali (sovente di natura
tribale) e le grandi multinazionali dominatrici del mercato petrolifero
mondiale.
Da quando è mondo, le dittature non si abbattono con le guerre, addirittura
preventive, né con rissosi convegni di oppositori, in gran parte prezzolati,
tenuti in alberghi di lusso di Londra o di Washington, ma le combattono,
a viso aperto, anche militarmente, i movimenti unitari di liberazione
nazionale che se ne assumono la responsabilità politica e rischiano
quello che c’è da rischiare.
Tuttavia, se davvero si vogliono combattere le dittature con la guerra,
allora bisognerebbe mettere in cima alla lista i regimi feudali delle
petromonarchie del Golfo dove un potere assolutista e retrogrado non
consente le Costituzioni, i parlamenti, i partiti politici, i sindacati,
i giornali indipendenti, le libertà di culto, di associazione, ecc,
ecc.
I popoli arabi stretti fra dittature e oscurantismo religioso
La vera preoccupazione dei guerrafondai non sono le dittature che negano
le libertà a centinaia di milioni di cittadini arabi obbligati a vivere
in un regime politico speciale, dentro Stati-caserma, stretti nella
ferrea morsa di regimi illiberali, fondati su privilegi scandalosi,
e dell’integrismo fanatico e terrorista che vorrebbe annullare
quel tanto di progresso civile e culturale faticosamente conquistato.
In questa guerra la vera posta in gioco è il controllo politico e militare
delle risorse petrolifere che il liberismo globalizzante si vuole assicurare,
anche a rischio della pace mondiale, poiché - secondo la propaganda
bellicista- non c’è più spazio per una iniziativa negoziale per
giungere al disarmo iracheno, secondo il dettato delle risoluzioni dell’Onu.
“Solo un miracolo potrà evitare la guerra” ha sentenziato
l’on. Berlusconi, all’uscita del vertice straordinario della
UE.
Tali posizioni confermano il più che legittimo sospetto secondo il quale,
da tempo, ai piani alti della finanza e del complesso militare-industriale
Usa è stata decisa e pianificata la guerra preventiva contro l’Iraq
e nulla potrà fermare la poderosa e micidiale macchina bellica americana.
Tranne, appunto, un miracolo, a quanto pare improbabile nonostante l’accorata
presa di posizione del Papa e l’accorta iniziativa della diplomazia
vaticana il cui responsabile, Mons. Tauran, si è spinto a definire "un
crimine contro la pace" la guerra unilaterale che vorrebbero scatenare
Bush e soci. O Forse "il miracolo" potrebbe essere l’abbandono
volontario del potere (e l’esilio) da parte di Saddam e del suo
entourage? Vedremo.
Non regge più la teoria manichea del “bene” e del “male”
D’altra parte, Bush ha forzato la situazione fino ad un punto
di quasi non ritorno; questa volta, la partita non si potrà concludere
con un rinvio, ma con la vittoria di uno dei due contendenti. E per
il perdente non ci sarà scampo.
Bush n'è consapevole (come dall’altro lato Saddam) perciò è deciso
a giocarsi il tutto per tutto pur di assolvere, con profitto, al compito
assegnatogli dai suoi potentissimi sponsor elettorali: impossessarsi,
anche con la guerra, delle enormi riserve petrolifere dell’Iraq
che, aggiunte a quelle della confinante Arabia saudita e delle altre
petromonarchie del Golfo, assicureranno alle compagnie americane il
controllo del mercato energetico mondiale e il rifornimento, a prezzi
minimi, del voracissimo mercato interno.
Nessuno crede alle storielle manichee del “bene” e del “male,
alla missione salvifica dello zio Sam per liberare il terzo e il quarto
mondo dalle grinfie di una masnada di dittatori (in gran parte allevati
e sostenuti dalla Cia) e, fino a prova provata, al paventato connubio
fra Saddam Hussein e Bin Laden, ossia fra “il diavolo e l’acqua
santa”.
Le farneticanti accuse contro i pacifisti meglio si attagliano agli
accusatori
A chi accusa il movimento pacifista e la sinistra di fare il gioco di
Saddam o, peggio ancora, del terrorista Bin Laden, bisognerebbe ricordare,
inoltre, che:
a) la dittatura di Saddam si è affermata passando sopra migliaia di
cadaveri di militanti kurdi e di dirigenti del Partito comunista iracheno
e che la gran parte delle armi e delle tecnologie (chimiche e batteriologice)
che gli ispettori dell’Onu vanno cercando sono state vendute,
e lautamente, dai principali Paesi della Nato, fra cui Stati Uniti,
Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, oltre che dall’ex URSS;
b) il miliardario saudita Osama Bin Laden non ha mai militato nei ranghi
del movimento operaio e della sinistra ed è stato proclamato emiro del
terrore direttamente sul campo, nella “guerra santa” afgana
contro gli invasori sovietici, con l’evidente sostegno (in istruttori
e armi) della Cia e con fondi messigli a disposizione da vari governi
della regione amici degli Usa.
Scrive Gilles Kepel, eminente orientalista francese, sul quotidiano
marocchino “Liberation”: “Negli Stati Uniti, la
causa (del “Jihad=guerra santa” n.d.r.) era ben compresa:
i jihadisti combattevano “l’impero del male” sovietico,
evitando ai boys del Middle West di rischiare la loro vita, e le petromonarchie
pagavano la fattura ... Nel 1988, Osama Bin Laden crea in Afganistan
una base di dati, schedando tutti i militanti jihadisti e gli altri
volontari che transitano per i suoi campi di addestramento: da ciò nascerà
una struttura organizzativa, creata attorno ad uno schedario informatizzato,
da cui il nome arabo al-Qaeda (“la base” di dati) ...”
(citato in A. Spataro - “Il fondamentalismo islamico”, Editori
Riuniti, 2001)
Il ruolo dell’UE: cooperazione pacifica per lo sviluppo e la
democrazia nel mondo arabo
Il movimento pacifista e il centro sinistra dovrebbero respingere al
mittente tali farneticanti accuse e rivendicare il diritto di fare chiarezza
sui rapporti, passati e presenti, con questi due personaggi e soprattutto
sforzarsi di elaborare proposte credibili per rilanciare il processo
negoziale nell’ambito dell’Onu riguardo al disarmo iracheno,
senza dimenticare la quotidiana mattanza che l’esercito israeliano
sta perpetrando nei Territori palestinesi occupati, al riparo dei riflettori
della stampa e dell’opinione pubblica internazionale, tutti puntati
contro Saddam.
Oltre alla soluzione negoziata dei numerosi conflitti, la vera svolta
politica, in senso pacifista, nelle relazioni fra Occidente e Oriente,
in particolare fra Europa e mondo arabo, consiste nell’avvio di
un processo di effettiva cooperazione economica, tecnica e culturale,
reciprocamente vantaggiosa.
Per agevolare tale processo, l’Europa dovrà riscoprire il mondo
arabo in tutta la sua ricchezza e varietà di risorse umane e materiali,
in tutte le sue energie intellettuali e morali, superando i limiti di
un rapporto meramente mercantile.
Perché gli Usa hanno bisogno del petrolio iracheno?
In realtà, la lotta al terrorismo e per la libertà sono il paravento
sgangherato dietro cui si tenta di nascondere l’inderogabile necessità
di mettere le mani sul petrolio iracheno.
Per verificare la plausibilità di tale assunto, basta fare quattro conti,
con l’ausilio dei dati contenuti in “Annual Statistical
Bullettin- 2001” dell’Opec.
Con 5,8 milioni di barili/giorno (mln b/g), gli Stati Uniti figurano
al terzo posto della graduatoria mondiale dei produttori di petrolio
(dopo i paesi ex URSS e l’Arabia Saudita) e al primo posto in
quella dei consumatori (18,5 mln b/g nel 2001). Gli Usa, infatti, con
poco più del 4% della popolazione mondiale (276 mln d'abitanti), consumano
il 26% della produzione petrolifera mondiale, alla quale bisogna sommare
i consumi derivanti da altre materie prime energetiche quali il carbone,
il gas naturale, il nucleare, ecc. che portano il consumo medio/annuo
per abitante a 8,8 Tep (tonnellate equivalenti di petrolio). La media
italiana è di 2,9 Tep.
Come nota Nicolas Sarkis, uno dei massimi esperti mondiali di energia
e direttore di “Petrole e gas arabe”: “I dati di
base dicono che la produzione petrolifera degli Usa è in costante calo
da circa 30 anni, durante i quali il loro consumo è aumentato e la loro
dipendenza dalle importazioni di petrolio è in forte e rapida crescita.
Da un picco di 9,44 mln di b/g del 1972, quando gli Usa erano il primo
produttore mondiale di petrolio, la produzione americana di petrolio
greggio è caduta del 38,6% per scendere a 5,8 mln/bg nel 2001…Nel
2020, secondo le previsioni disponibili, non supererà 4,3 mln di bg.”
(in “www.infomedi.it“, n. 17 del dicembre 2002)
Si è venuto a determinare così un notevole saldo negativo (12,7 mln
b/g) fra produzione e consumi petroliferi, coperto con quote, sempre
crescenti, d’importazioni.
La conferma dell’opzione petrolifera di Bush
L’amministrazione Bush, invece di avviare una politica di contenimento
dei folli consumi petroliferi, ha revocato l’adesione degli Usa
all’accordo di Kioto, la cui attuazione diveniva incompatibile
col mantenimento di una realtà consumistica davvero scandalosa e altamente
inquinante che provoca danni insostenibili al delicato equilibrio ecologico
del pianeta.
L’opzione petrolifera presuppone la certezza della continuità
del rifornimento del mercato interno a prezzi bassi, che non può essere
fronteggiata con le sole, scarse riserve nazionali, stimate in 22 miliardi
di barili (mld/b).
Per correre ai ripari, la potentissima lobby petroliera Usa (alla quale
non sono estranei gli interessi della famiglia Bush e di altri autorevoli
rappresentanti dell’attuale Amministrazione) ha deciso una strategia
mirante ad accaparrarsi risorse petrolifere in gran quantità e a condizioni
di massima agibilità politica. Dove andare? Ancora una volta nel Golfo,
nell’area a più alta concentrazione petrolifera del mondo; visto
che sulle risorse del Caucaso e dell’Asia centrale ha allungato
gli artigli l’orso di Mosca.
Da sole, le ingenti riserve dell’Arabia saudita (ammesso che resti
sempre“saudita”, ossia feudo della tribù dei Saud), non
potranno assicurare, nel medio-lungo periodo, la continuità del rifornimento
alle condizioni desiderate dalle compagnie Usa.
Perciò urge mettere le mani sull’Iraq, ovvero sul secondo Paese
al mondo per riserve petrolifere accertate (112,5 mld/b) dove, da circa
30 anni, da quando al potere c’è Saddam Hussein, nessuna compagnia
statunitense ha messo piede.
Paesi del Golfo: riserve accertate per 700 miliardi di barili di
petrolio
Le risorse irachene, aggiunte a quelle di Arabia saudita (262,6 mld/b),
Emirati arabi uniti (97,8 mld/b), Kuwait (96,5 mld/b), Qatar (15,2 mld/b),
Oman (5,8 mld/b), fanno la bellezza di 590, 4 miliardi di barili; ossia
una quantità 27 volte superiore al totale delle riserve Usa.
Da questo conto restano fuori le importanti riserve petrolifere dell’Iran
( 99 mld di barili), tuttavia il Paese degli ayatollah è sempre in cima
alla lista nera degli “stati canaglia”. Magari in un secondo
tempo ... (vedi tabella n. 1)
Gli scenari che si potranno verificare pongono seri problemi e non solo
ai movimenti pacifisti.
Esiste concretamente il pericolo di una destabilizzazione a cascata
di quasi tutti i regimi arabi il cui sbocco sarà o quello di una deriva
“fondamentalista” o quello di un ulteriore inasprimento
dei sistemi dittatoriali. Così come c’è da temere che la crisi
investa, soprattutto sui versanti politico ed economico, l’Europa
fortemente esposta ai contraccolpi derivanti dalle conseguenze del conflitto
e dagli aumenti incontrollati dei prezzi petroliferi (già oggi il prezzo
del barile è a 37 dollari, a guerra scatenata l’UE teme che possa
aumentare fino a 70 dollari).
Perciò, gli esponenti politici e dell’imprenditoria italiani ed
europei dovrebbero prendere atto che questa guerra è anche un serio
problema sulla strada della costruzione Unione europea.
La strategia Usa punta, infatti, al controllo di queste ingenti risorse,
per altro concentrate in un ambito territoriale ristretto ed omogeneo,
anche politicamente, (l’unica anomalia, quella irachena, la si
vuole eliminare con la guerra preventiva), per condizionare l’economia
mondiale per i prossimi 40-50 anni, in primo luogo quella dei Paesi
concorrenti industrializzati, forti consumatori e scarsi produttori
di petrolio e di altre materie prime energetiche.
Dal controllo delle risorse al dominio del mercato petrolifero
Una volta acquisito il totale controllo, politico e militare, delle
risorse petrolifere sarà facile assicurarsi il dominio sul pingue mercato
della distribuzione e del consumo dei prodotti petroliferi.
L’affare è di quelli pesanti ossia un mercato dal valore annuo
di circa 650 miliardi di dollari.
Nell’ultimo ventennio (1981- 2001), il consumo mondiale di prodotti
petroliferi si è incrementato di circa il 20% , passando da 57, 5 mln
di b/g a 71,1 mln di b/g (+13,5 mln di b/g).
La parte più consistente di tale incremento è stata attribuita alla
regione “Asia e Pacifico” che è passata da un consumo di
10,1 mln b/g del 1981 a 19,3 mln b/g del 2001.
L’America del nord, (il dato è attribuito principalmente agli
Usa) ha visto aumentare il suo già elevato consumo di altri 3 mln di
b/g, mentre l’Europa occidentale di circa 2 mln di b/g. Significativo
anche l’aumento dei Paesi del Medio Oriente che praticamente hanno
visto raddoppiare la loro quota-consumi: da 1,8 a 4,1 mln di b/g.
Lievi aumenti fanno registrare le deboli quote di Africa ed America
Latina. In controtendenza, soprattutto nel periodo 1991-2001, è il dato
relativo ai Paesi dell’Europa orientale che fa registrare una
forte caduta (un dimezzamento) dei consumi (da 9,3 a 5,0 mln di b/g).
(vedi tabella n. 4)
Nel 2001, il valore(in dollari) del mercato petrolifero mondiale si
è attestato intorno ai 650 miliardi di dollari Usa, una cifra ragguardevole,
corrispondente a circa il 10% del valore delle esportazioni mondiali.
Per quanto riguarda la spartizione di questo “bottino”,
la parte del leone la fanno le cinque principali società petrolifere
le quali, dal 1997 al 2001, hanno visto crescere i loro ricavi di circa
100 miliardi di dollari (vedi tabella n. 3)
Naturalmente, bisognerebbe considerare la disastrosa incidenza che l’elevato
aumento dei consumi petroliferi avrà potuto determinare nel già precario
(o compromesso?) equilibrio ecologico del pianeta, soprattutto in riferimento
ai volumi di emissione di gas venefici nell’atmosfera.
Il monopolio sulle risorse per condizionare lo sviluppo mondiale:
i rischi per la nuova Europa
Nella lista dei principali Paesi consumatori/importatori di petrolio
figurano, oltre a Giappone e a Corea del Sud, i più importanti paesi
dell’U.E.: Germania con un consumo di 2,7 mln di b/g e un import
di 2,1 mln b/g (ovvero 77%); la Francia (1,9 mln di consumo/ 1,7 mln
d’import (89,4% ); l’Italia (1,7 mln di consumo/ 1,66 d’import,
(97%); la Spagna (1,3 mln di consumo/ 1,1 d’import ( 87,6%). La
Gran Bretagna, con 1,7 mln di consumo e 0,9 mln d’importazioni
(52,9%), è il Paese europeo meno dipendente dalle importazioni petrolifere.
(vedi tabella n. 2 )
Questi dati se, in parte, spiegano i propositi bellicisti del laburista
Blair non giustificano affatto l’allineamento passivo, perfino
autolesionista, dei governi di centro-destra di Berlusconi e Aznar che
forse si sono lasciati incantare da qualche illusoria promessa di trattamento
privilegiato, fatta loro sottobanco da qualche “ministro”del
governo-fantoccio o dal miraggio di una partecipazione ai dividendi
della guerra ...
In realtà, il predominio statunitense sulle risorse e sul mercato dell’energia
ipotecherà il futuro dell’Unione Europea e del più grande polo
economico dell’area del Pacifico, ossia di due temibili potenze
che potrebbero insidiare, o quantomeno limitare, la supremazia “imperiale”
degli Usa.
24 febbraio 2003
*Agostino SPATARO
Direttore Centro Studi Mediterranei/ e-mail: cestumed@tin.it
E’ autore di numerosi volumi sul mondo arabo e sul Mediterraneo,
fra i quali:
“I Paesi del Golfo”- Editrice internazionale, Roma, 1991
“Il Mediterraneo”- (coautore B. Khader)- Edizioni Associate,
Roma, 1993
“Il fondamentalismo islamico”- presentazione di Y. Arafat-
Editori Riuniti, Roma, 2001
Diritti Riservati: è autorizzata la diffusione, anche parziale, del
presente articolo purché siano chiaramente indicati il nome dell’Autore
e il sito della rivista che lo pubblica: www.infomedi.it