( IL VIAGGIO )


YEMEN, IL PAESE DELLA REGINA DI SABA
di Agostino Spataro


Figura 1: Sana'a, piazza della Rivoluzione

C’ERA UNA VOLTA… IL VIAGGIO IN ORIENTE
C’era una volta il viaggio nell’Oriente islamico che faceva sognare, e partire, schiere d’artisti vagabondi, scrittori, eremiti, esteti, avventurieri e dame stravaganti.
Si andava per deserti sconfinati, sotto cieli di vivide stelle, alla scoperta di luoghi e città favolose per abbeverarsi alle fonti della sapienza antica, alla ricerca di emozioni forti e nuovi stili di vita o di “qualcosa” d’indefinito, di magico, ch’era vano cercare in Occidente.
Si era attratti dalle gaudenti atmosfere degli hammams (bagni turchi), dei caravanserragli, degli harem, ma anche dal seducente mistero di una civiltà nata fra le aride sabbie e impostasi, con la spada e col Libro, sopra popoli e paesi evoluti, dal passato di gran lunga più illustre e remoto.
Bagdad, Damasco, Beirut, Gerusalemme, il Cairo, Tripoli, Alessandria, Istanbul, Aden, Sana’a, erano le gemme più preziose di questo mirabolante Oriente. Oggi, queste favolose metropoli ci vengono propinate come “nemiche”, soltanto come ricetto di truci dittature e d’intrighi menzogneri, evocatrici di odio e di vendette e stragi sanguinose, di miserie e lussi scandalosi; immagini ripugnanti che si vorrebbero cancellare con una lunga serie di guerre “preventive”.
Non resta che andare in massa a Sharm el Sheikh, a Hurghada…ovvero due lembi di costa romagnola trapiantata sulle rive del Mar Rosso.
Una situazione inimmaginabile fino a pochi anni addietro che, oltre a rendere impervio “il viaggio”, sta producendo un mutamento inquietante nelle profondità delle coscienze.
Le guerre per il petrolio e i fondamentalismi di tutte le risme, infatti, stanno deteriorando i rapporti fra Occidente e mondo arabo e deformando l’idea che, nell’immaginario collettivo, si aveva degli arabi e dei loro paesi. E viceversa, conseguentemente. Se in Occidente cresce una forma ottusa di arabofobia che mira a rimuovere l’Arabia dai nostri orizzonti, fra gli arabi si sta diffondendo un antioccidentalismo cieco, astioso, ideologico.
Sentimenti abominevoli che stanno invertendo la prospettiva generale delle relazioni esistenti fra i due mondi: dalla cooperazione nella pace al conflitto permanente, anche militare.
Mentre, sullo sfondo, si sente aleggiare la minaccia più grave, esiziale: la cosiddetta “guerra fra civiltà”, propugnata (e fors’anche programmata) dagli sciovinisti d’entrambi le parti.
Perciò, tutto si è maledettamente complicato. Si vive nell’incertezza e nella diffidenza reciproca.

YEMEN: SCRIGNO DEI TESORI D’ARABIA
Le cose non vanno nemmeno nel campo del turismo. Il viaggio nelle terre d’Arabia, un tempo tappa obbligata per introdursi nei meandri di un Oriente fascinoso, esoterico, oggi sta perdendo molto della sua attrattiva poiché è considerato rischioso e, da taluni, perfino antipatriottico.
Anche nel caso di un paese bellissimo e gentile qual è lo Yemen riunificato: un piccolo mondo a se stante, incuneato fra l’Oceano Indiano, il mar Rosso e l’infuocato deserto del Rab-Al Khali o “Quarto vuoto” su cui si propaga l’Arabia dei Saud, il più ricco stato petrolifero del Pianeta.
Purtroppo, dello Yemen si parla e si scrive assai di rado e solo in occasione di qualche sequestro di turisti occidentali da parte di sceicchi e beduini e, soprattutto, per richiamare le origini (yemenite) della famiglia di Osama Bin Laden, l’ineffabile capo di Al Qaeda.
Peccato, davvero, poiché “Lo Yemen – scrive Pier Paolo Pasolini (in “Corpi e luoghi”, 1981) - architettonicamente, è il più bel Paese del mondo. Lo stile yemenita, un enigma solo parzialmente risolto, o di cui solo pochi sanno, se c’è, la soluzione”.
Visitandolo si prova la gradevole sensazione di viaggiare dentro la favola di un Oriente mitico che, nonostante tutto, resiste alle tentazioni del falso modernismo e si propone come soggetto del dialogo fra le civiltà.


Figura 2: moschea a Mokka

Il viaggio nello Yemen è come un cammino a ritroso nel tempo, dentro un medioevo islamico che sopravvive, isolato, a contatto con una natura aspra e incontaminata, aggrappato a città e villaggi popolati di gente fiera ed ospitale, di torri e minareti e palazzi carichi di storia.
Lo Yemen è come un grande scrigno che contiene i tesori più pregiati di tutta l’Arabia: da Sana‘a, la capitale, con i suoi famosi “grattacieli” ad Aden il grande porto coloniale (un tempo importante quanto quello di New York); da Mareb, con i ruderi della grande diga (costruita 3700 anni fa) e i templi di Bilqis, la celebrata regina di Saba a Taiz coi palazzi- fortezza degli ultimi folli Imams (sovrani il cui potere millenario fu abbattuto da un golpe militare nel 1962); da Zabid, nel cuore della Tihama, dove Pasolini girò il film “Il fiore delle mille e una notte” a Mokka il porto da dove partì il primo carico di caffè yemenita verso le corti di Vienna e di Parigi; da Jiblah, città-presepe dominante la montagna yemenita, già capitale dei regni medievali di altre due celebri regine, Asma e Arwa, al deserto infinito che da Sa’da scende fino al porto di Mukallà, passando per la vasta distesa dell’Hadramaut, fino al confine con l’Oman.
Nomi e luoghi che illuminano di luce smagliante i superbi resti di una fra le più antiche e celebrate civiltà che, ancor oggi, emana un magnetismo esotico a cui è difficile sfuggire.

FRA I “GRATTACIELI” DELL’ANTICA SANA’A


Figura 3: Sana'a, centro storico

Eccomi, finalmente, a Sana’a, la capitale dello Yemen riunificato, situata a 2000 metri d’altezza.
L’ auto, guidata da un autista intontito dal fumi del qat (una diffusissima droga leggera che gli uomini, qui, masticano tutti), s’inoltra nei quartieri della città antica, attraverso la “Bab el Yemen”, la porta meglio conservata delle sei che si aprono nella cinta muraria, sulla quale scorrono 118 bastioni quasi tutti diroccati. Oggi si entra e si esce dalle porte liberamente, al tempo degli Imams le porte, rigidamente sorvegliate, restavano aperte solo nelle ore diurne.
Oltrepassato il mercato delle erbe, dislocato sullo spiazzo retrostante Bab el Yemen, s’imbocca un’ampia strada brulicante di donne interamente velate, di uomini smilzi, con la guancia rigonfia da un bolo di foglie di qat, che portano un “jambia” (pugnale tradizionale) attaccato alla pancia, di mendicanti storpi e/o con gli occhi cuciti, d’asini stanchi che paiono nuotare in quei budelli che scompaiono nell’intricato labirinto della casbah.
La selva dei “grattacieli” è lì di fronte. Finalmente si possono ammirare da vicino: sei, sette, otto piani di pietra granitica su cui si aprono finestrelle sbarrate da grate lignee di un azzurro tenue che contrasta col bianco accecante delle eleganti geometrie di stucchi; ai piani alti le finestre sono molto più grandi e decorate con lastre di alabastro e vetri colorati che compongono motivi floreali.
In un angolo, i resti del palazzo “Gumdam”, antica residenza reale, il primo costruito con blocchi di pietra (non più con paglia e fango). Si dice che avesse venti piani. Soltanto il jebel (monte) Nogum lo superava in altezza.
I grattacieli di Sana’a rappresentano uno stile costruttivo unico al mondo, non solo arabo, ed hanno preceduto di vari secoli quelli più arditi e moderni di New York.
A differenza della casa araba, che si sviluppa in linea orizzontale intorno ad una corte dove si svolgono, al riparo di occhi indiscreti, la gran parte delle attività domestiche, a Sana’a prevale la costruzione in linea verticale che, nei secoli, ha prodotto questo fantastico tessuto urbano, per fortuna tutelato dall’Unesco e dalla comunità internazionale.
Si tratta di solide case-torri concepite per difendersi dagli assalti dei nemici e dalle razzie dei predoni ( nel passato molto frequenti anche all’interno delle città) che, al contempo, materializzano lo status economico e politico del proprietario nel quartiere e il suo prestigio nell’ambito della gerarchia sociale e familiare.
Il direttore del programma di restauro dell’antica Sana’a ci illustra le funzioni del suo onorevole ufficio, poi ci conduce sulla terrazza, per meglio indicarci gli interventi già effettuati, anche con rilevanti finanziamenti italiani.
Dall’alto della torre si ammira uno spettacolo fantasmagorico, indescrivibile: da ogni lato scorrono filari di torri imbacuccate di fregi e cromature un po’ naif; ogni tanto, fra un grattacielo e l’altro, spiccano le chiazze verdi di orti di legumi e verdure e di giardini di palme e di altri frutti tipici, fra i quali molto diffusi il melograno, il fico, gli agrumi, il carrubo, ecc.
Una corona di montagne brulle cinge l’abitato di Sana’a. Fra queste spicca, per la sua perfetta forma conica, il jebel Nogum sulle cui pendici s’inerpica la città dei nuovi ricchi.
Sulla vetta si possono ammirare i ruderi di un’antica fortezza costruita -si dice- sui resti del castello di Sem, figlio di Noè e capostipite della stirpe semitica (poiché il “semitismo” non è una prerogativa dei soli ebrei). Secondo la leggenda e taluni riferimenti contenuti nel Vecchio Testamento, sembra che il popolo di Sem abbia avuto origine proprio qui, sugli altipiani yemeniti. D’altra parte, questa è l’unica regione dell’Arabia che può vantare una buona agricoltura, grazie alle discrete precipitazione stagionali e ad un clima piuttosto temperato, mitigato dagli alisei provenienti dall’India.

IL SUQ, LUOGO DI CONFLUENZA E DI LIBERTA’

Nel centro storico di Sana’a tutte le strade confluiscono al suq (insieme di mercati), uno spazio enorme, intricato che costituisce il cuore pulsante della città. Nei paesi arabi il suq è anche il principale luogo di libertà. Un santuario dove i controlli sono rari e difficili da eseguire. La folla si muove come un fiume lento, magmatico, sotto le tettoie coperte con stuoie di paglia e fogli di lamiera. E’ questa la tipica copertura del mercato arabo, mentre quelli costruiti dai turchi sono più spaziosi ed hanno il tetto ad arco, in muratura.
Sotto queste tettoie si condensa un’eterna frescura che, anche nelle ore più torride, rende piacevole il passeggio, lasciandosi trasportare dalla corrente umana, curiosando, sbadati, fra una ricca varietà di merci e fra la gente che vi si aggira intorno.


Figura 4: Sana'a, Bab El Yemen

E’ questo il modo più efficace per farsi un’idea delle condizioni di vita esistenti. Il suq è lo spazio eletto della confluenza dove si stempera il dualismo, altrimenti insanabile, fra la città dominata dai mercanti e la campagna dominata dalle tribù; è un palcoscenico della vita sociale della città araba e anche un indicatore attendibile della congiuntura economica e politica.
Il mercato di Sana’a, il più antico della penisola arabica, è ripartito in circa 40 settori merceologici, con 1700 fra botteghe commerciali e laboratori artigianali. Il suq dei tessuti è certamente il più ricco e variegato. Vi si trovano sete cinesi e stoffe coloratissime di foggia tradizionale prodotte in loco o importate dall’India , dalla Siria o dall’Egitto oppure giacche da uomo di taglio occidentale. Soltanto giacche, mai un abito intero.
Nel quartiere degli artigiani si lavorano il legno, il cuoio e vari metalli. Una particolare attrazione destano i fabbricanti di “jambia”, il caratteristico pugnale a punta ricurva che, qui, gli uomini portano tutti in bella mostra.
“Alla donne si addice il velo (ossia la velatura totale del corpo), all’uomo il jambia”, così recita un detto yemenita. Il pugnale esprime anche un forte valore simbolico e di prestigio. Lo portano anche le più alte cariche dello Stato.
Ve ne sono di varia fattura e per tutte le tasche. Desideravo acquistarne uno e domandai il prezzo. Seguì un dilettevole mercanteggiamento che è l’aspetto più interessante del commercio arabo. Com’è noto, gli arabi più che commerciare mercanteggiano, con modi e toni davvero singolari: passano dall’arrabbiatura al sorriso suadente, levantino, al classico bicchiere di tè alla menta che, quasi sempre, si rivela l’espediente più efficace per combinare l’affare.

MAREB, FRA I TEMPLI DELLA REGINA BILQIS

Viaggiamo in direzione di Mareb, l’antica capitale del mitico regno dei sabei. Qui sono custoditi i grandiosi templi di Bilqis, la celebre regina di Saba, i resti della grande diga del 1700 a.c. e altri tesori di quella fiorente e raffinata civiltà.
Per raggiungerla bisogna percorrere 180 km (verso il nord-est di Sana’a) attraverso l’altopiano che poi discende verso una immensa piana arida che giunge fin sulla soglia del Rab al-Khali.
Sull’altopiano sono rari i villaggi, s’incontrano soprattutto case isolate in mezzo a campi di granoturco, di angurie e piantagioni di alberi del qat, la malapianta (dalla quale si ricava la droga) che, un po’ dovunque, ha soppiantato le floride colture di caffè che offrivano al mondo il rinomato “Moka”. Oggi, col qat i contadini ricavano un reddito 4-5 volte superiore a quello prodotto dal caffè.


Figura 5: ruderi dell'antica Dam (diga)

Le automobili inseguono questo paesaggio per un lungo tratto, fino alla catena del Rem che separa l’altopiano dalla vallata sterile che “non produce da almeno 1000 anni” - ci dice la guida- “da quando è crollata la Dam (diga), definitivamente”. Di tanto in tanto, la monotonia del paesaggio è spezzata da gruppi di tende nere dei beduini. Sono nomadi che vagano nel deserto, da un’oasi all’altra, alla ricerca di acqua e di pastura per gli armenti.
Qui il nomadismo è ancora diffuso soprattutto lungo tutta l’ampia fascia desertica, detta “terra di nessuno”, che dovrebbe segnare i contesi confini con l’Arabia e l’Oman.
Il beduino (dall’arabo “badawi”, abitante del deserto) non riconosce i confini convenzionali degli Stati, per casa ha la tenda e per patria il deserto infinito, senza barriere, coi suoi segreti e suoi tormenti. Ed è qui, nella solitudine delle sabbie, che inevitabilmente incontra Dio. Non è casuale che le tre principali religioni monoteiste (ebraica, cristiana ed islamica) sono nate nei deserti a nord dello Yemen, fra la Palestina e la Mecca.
L’attuale Mareb è la terza che si edifica in questi luoghi. La prima, la florida e potente capitale del regno di Bilqis, è sepolta sotto la sabbia; la seconda, ancora in piedi, la si scorge a pochi km completamente disabitata; ombra impietrita di un vile passato, abbandonata per vendetta dai vincitori repubblicani che vollero punirla per aver stretto alleanza col nemico (saudita) durante gli otto lunghi anni di sanguinosa guerra civile.
Anche la prima Mareb fu distrutta per vendetta “divina” quando- secondo la Sura di Saba del Corano- “i discendenti di Saba si allontanarono dai suoi ordini (di Dio ndr), sicché inviammo contro di loro lo straripamento della diga che distrusse la città di Saba e cambiammo i loro due giardini in altri due giardini di frutti amari, di tamarisco e piante di loto…”
Le conseguenze della divina vendetta sono sotto i nostri occhi. Di quella colossale diga (una delle 7 meraviglie dell’antichità) non restano che due enormi bastioni che segnano le estremità della barriera e alcuni canali interrati.
Ora che le tribù yemenite si sono riconciliate con l’Altissimo, il governo ha fatto costruire una nuova diga e la nuova Mareb che senza la diga non potrebbe sopravvivere.



Figura 6: colonne del tempio di Bilqis

La gran parte della città sabea riposa sotto dolci colline di sabbia finissima. Due gruppi di colonne quadrate, alte anche 7 metri, attraggono la mia curiosità: sono i resti dei templi dove officiava Bilqis.
Quello più grande è dedicato al dio Illumquh (la Luna) che nel pantheon astrale dei sabei era la divinità preminente e di sesso maschile, mentre il Sole era la sua sposa.
Oltre le colonne, s’incontra un muro ovale nel quale si aprivano numerose finestre, cosicché l’orante poteva scorgere il sole in ogni ora del giorno.
All’interno di questo tempio risiedeva la regina di Saba, il cui nome ogni yemenita porta nel cuore, poiché essa simboleggia l’apogeo della potenza e della gloria yemenite.
Bilqis creò un nuovo ordine economico e politico che si espanse in tutta l’Arabia meridionale, fin oltre le coste abissine del Mar Rosso dove sorsero colonie commerciali e importanti avamposti militari sabei. Mareb divenne il centro di un formidabile sistema di traffici carovanieri che assicuravano il flusso di merci preziose (spezie, oro, incenso, gemme, profumi, ecc) dalle Indie e dall’Hadramaut verso i ricchi empori del Mediterraneo: egizi, fenici e romani.
Oggi, tutto questo è soltanto un intimo ricordo di pochi appassionati, giacché l’islam zaidita (una delle tante confessioni sciite) dominante nello Yemen non ammette che una donna avesse potuto creare e governare un regno così potente e rinomato. Di Bilqis non c’è traccia nemmeno nella mastodontica Enciclopedia dell’Islam: quella donna, ammesso che sia esistita per davvero, non poteva essere una umana, ma Satana in persona nelle sembianze di una bellissima regina.
Agostino SPATARO

*Agostino SPATARO è autore de ”LA NOTTE DELLO SCEICCO- Reportage dallo Yemen” - Edizioni Associate, Roma, 1994


AVVERTENZA: è autorizzata la pubblicazione (anche parziale) di questo articolo purchè vengano chiaramente citati il nome dell’autore e del giornale online di riferimento: www.infomedi.it


Joppolo G. 16/8/2003


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