Transarte, Culture non Occidentali
di Agostino Spataro

 


Foto-locandina della mostra
di Garo Keshishian

* Il nostro radicato eurocentrismo ci impedisce di conoscere le "culture non occidentali" e quindi di fruire dell'incommensurabile patrimonio artistico e culturale creato da tre quarti dell'umanità. 

* In Occidente serpeggia una sottile inquietudine alla cui base c'è come il sentore di aver raggiunto il punto critico dell'ascesa della civiltà occidentale nel quale coincidono l'apice del successo e l'inizio del declino.

Riflessioni sopra un tappeto afgano
E’ vero: per riconoscere un’opera d’arte non sempre è necessario essere dei valenti critici o dei navigati intenditori. Quando è arte vera scatta un’emozione che scuote, e coinvolge, nell’intimo l’osservatore.
Un po’ quello che mi è capitato a Rovereto, in occasione dell’inaugurazione della galleria “TransArte” di Sergio Poggianella, davanti ad alcuni ritratti crudi, e soavi al tempo stesso, del grande fotografo bulgaro Garo Keshishian e, soprattutto, di fronte ad un coloratissimo tappeto afgano che riproduce la geografia rudimentale di questo nostro mondo tormentato.
Un disegno naif che, per un momento, ottunde la concezione copernicana e ci propone la Terra come una tavola piana, quasi fosse ridiventata piatta, dove ogni Paese, grande o piccolo, è spiegato coi fili di lana.
Cercai di fissare, su quella superficie, un confine fra Occidente e resto del mondo, per capire cosa “non è Occidente” e quindi il senso del “manifesto” della nuova galleria che intende privilegiare, appunto, “le culture non occidentali”.
Un confine ideale, naturalmente, secondo le categorie imposteci da cattivi maestri e da specialisti prezzolati, autori di una bizzarra geografia che dilata o assottiglia i confini dell’Occidente secondo gli interessi strategici e l’ammontare del PIL procapite.

Il prisma deformante dei razzismi e dei fondamentalismi
Tentativo vano, il mio. Poiché il tappeto è stato confezionato non secondo la logica sopra citata, ma secondo la più elementare nozione geografica che considera i punti cardinali come le principali coordinate del pianeta, rivelatori dei più spettacolari fenomeni della natura (l’alba, il tramonto, la notte, il giorno, le calotte polari e quant’altro) e non come indicatori di una pervertita toponomastica della storia delle civiltà.
Vista attraverso il prisma deformante dei vari razzismi e dei fondamentalismi, l’umanità si presenta divisa in due regni: quello del bene inteso come benestare, e quello del male inteso come malestare, ossia il sottosviluppo, oggi quasi sempre associato al “terrorismo”.
Siamo di fronte ad una colossale mistificazione di valori etici e identitari che per meglio esaltare le “virtù” dell’Occidente riduce il resto del mondo ad un ammasso indistinto di popoli senza referenti culturali, razziali, storici.
L’applicazione di tale schema, a geografia variabile, ha sconvolto perfino la circolarità dell’orizzonte umano: l’individuo non si realizza più nel luogo fisico della sua dimora, bensì nel luogo ideale d’identificazione con le condizioni di massima potenza.
Queste cose ho letto in quel tappeto, ma anche altre. A ben guardare, fra quella massa di fili annodati si possono leggere la denuncia della mistificazione della geografia umana e politica e anche il dramma, paradossale, che sta vivendo l’Occidente nel momento in cui sembra aver toccato il massimo della sua potenza egemonica, culturale e militare.

Il potere senza cultura è solo dominio
Da qualche tempo, infatti, serpeggia in Occidente una sottile inquietudine alla cui base c’è come il sentore di avere raggiunto il punto critico dell’ascesa della civiltà occidentale, nel quale coincidono l’apice del successo e l’inizio del declino.
Come un male oscuro, tale sensazione si sta diffondendo soprattutto in Europa la quale, ritenendosi sempre più assediata, è tentata di delegare la difesa della “civiltà occidentale” alla superpotenza americana, ovvero alla sua più ringhiosa e volubile proiezione coloniale.
E gli Usa, che pure tanto hanno dato al mondo in termini di progresso tecnologico e di organizzazione democratica della società, si arrogano il diritto di portare a termine la “santa” missione con metodi sbrigativi e violenti; in sintonia, del resto, con le loro esperienze storiche costitutive: la guerra civile e il massacro degli indiani.
Si vorrebbe fondare un moderno impero sulla base della supremazia militare, tecnologica e finanziaria, senza più l’ipocrita pretesa di esportare la “cultura civilizzatrice”, ch’era la pezza giustificativa del vecchio colonialismo europeo.
Tuttavia, un potere senza vera cultura presto diventa brutale dominio.
All’orizzonte del nostro futuro potrebbe, così, profilarsi un nuovo potere che, sotto le mentite spoglie della globalizzazione riequilibratrice, nasconde un disegno di tipo neo-coloniale che, forse, temendo il confronto con le culture dei popoli vinti o assoggettati tende a svilirle (omologandole) ed infine a distruggerle, anche fisicamente.
Qualcosa del genere sta accadendo in Iraq, “preventivamente” invaso dagli eserciti di un Paese militarmente superpotente, ma debole culturalmente.

La guerra come rivalsa contro una civiltà-madre
Forse, s’ignorano taluni particolari di sommo rilievo: l’Iraq non era solo uno Stato asservito al regime tirannico di Saddam Hussein, ma è, soprattutto, l’antica Mesopotamia, la terra e le città degli Assiri e dei Babilonesi, popoli civilissimi che hanno trasmesso all’Occidente i fondamenti della cultura e i primi rudimenti, scientifici e pratici, dell’organizzazione economica e sociale dell’uomo.
Più che dalla lotta al “terrorismo”, che in Iraq non c’era, sembra che questa nuova follia bellica sia stata ispirata dalla bramosia petroliera frammista con un rozzo sentimento di rivalsa nei confronti di una civiltà-madre che si ritiene di non poter dominare con altri mezzi.
Del resto, la storia insegna che, quasi sempre, alla base delle più grandi sciagure c’è stato un risvolto psicologico a condizionare il comportamento dei protagonisti.
Ecco, allora, la pregnanza e la drammatica attualità del tema della conoscenza delle “culture non occidentali”. In verità, più che un tema, mi sembra un enorme ed urgente problema che l’Europa e l’Occidente debbono porsi e risolvere nell’ambito di una visione multiculturale globale.
La mia visita prosegue fra bellissime maschere sciamaniche provenienti dagli angoli più remoti del pianeta e fra “i tappeti di guerra”, una vera rarità, in tinta rosso-ocra e cremisi, che raccontano una guerra infinita che sta devastando l’Afghanistan.
Si vedono, uno sopra l’altro, carri armati ed elicotteri appartenuti ai russi invasori, fucili e bombe micidiali forniti da centrali antisovietiche ai talebani che hanno “liberato” il paese da un’odiosa occupazione straniera per annichilirlo con una fanatica dittatura religiosa che aborre e perseguita le idee e le culture altre.

Bellezza e utilità dell’arte
Da una dittatura all’altra, da una guerra tribale ad una religiosa, ad una “internazionale” come quella in corso contro il “terrorismo”. Non c’è pace per i poveri afgani trasformati da un popolo di fieri contadini a massa vagante di rifugiati.
Ed è qui, nei campi profughi, che le donne e i bambini hanno creato questi tappeti che sembrano intessuti coi ricordi di un terrore indelebile che li perseguita.
Un bell’esempio d’arte genuina, una sorta di verità documentale che illumina una storia tragica, purtroppo, non ancora conclusa.
Bellezza e/o utilità dell’arte? Difficile stabilire dei canoni interpretativi. Tuttavia, non si può accogliere il giudizio (forse solo una frase ad effetto) di Paul Auster, secondo il quale “la bellezza dell’arte consiste nella sua inutilità”.
Alla galleria “TranSarte” ho visto un' arte bella e utile che ci aiuta a scoprire nuovi mondi e nuovi stili. Più che una galleria, m’è parsa uno spazio armonico dove confluiscono gli esiti di una ricerca impegnata, militante, talvolta polemica, che va oltre il collezionismo e sconfina nell’amore per l’arte genuina e raffinata al tempo stesso.
Le “culture non occidentali”, per l’appunto, che il nostro radicato eurocentrismo ci impedisce di conoscere e quindi di fruire dell’incommensurabile patrimonio artistico e culturale creato da tre quarti dell’umanità. Una dura privazione che non si ferma alle arti plastiche, ma si estende ad altre elette creazioni del pensiero: la letteratura, la musica, il cinema, la televisione, ecc.
Una sola domanda: in Europa, quanto si conosce della cinematografia indiana, araba, cinese, sudamericana?
Ecco perché, quello della conoscenza delle “culture non occidentali”, più che un tema di ricerca per un’esposizione, dovrebbe essere percepito come un grande problema dell’epoca attuale, all’interno del quale l’arte può rappresentare il filo (d’Arianna) per esplorare e illuminare il labirinto della nostra mente, talvolta oscurata da una supponente ignoranza.

Agostino Spataro

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