Quando il figlio disattende le decisioni del padre.
Paradossalmente, Israele è il primo (e unico) Stato al mondo creato dalle Nazioni Unite ed è il primo nella graduatoria degli Stati che più disattendono le decisioni dell’Onu ossia dell’organismo che l'ha generato.
Non è superfluo ricordare che l’Onu, nonostante l’indebolimento provocato dall’unilateralismo statunitense praticato da Reagan a Bush, resta l’unica fonte, universalmente riconosciuta, della legalità internazionale.
Qualsiasi governo è tenuto a osservare le sue decisioni e raccomandazioni.
A maggior ragione dovrebbe osservarle Israele, uno Stato che è figlio diretto di una decisione dell’Onu. Ma, così non è stato e non è. Soprattutto nella gestione dei suoi difficili rapporti con i popoli e gli Stati vicini (palestinesi, Siria, Libano, Giordania).
Negli ultimi giorni, è riemersa, con forza e preoccupazione, la questione degli insediamenti ebraici nella parte araba di Gerusalemme. Il problema cioè di vecchie e nuove colonie di popolamento che violano lo status internazionale speciale di Gerusalemme, così come configurato dall’assemblea generale dell’Onu nel quadro della risoluzione n. 181 del 29/11/1947, anche a tutela del libero accesso ai “luoghi santi” delle tre principali religioni monoteiste (ebraica, cristiana e mussulmana).
L’occupazione, il torto più grande
Per altro, bisogna rilevare che all’epoca detta risoluzione fu accettata dai rappresentanti israeliani e respinta da vari paesi arabi.
Rifiuto politicamente inopportuno, forse affrettato, tuttavia umanamente comprensibile giacché qualunque altro popolo della Terra si sarebbe rifiutato di accettare di essere cacciato, senza colpa, dalle sue terre e dalle sue case, dove aveva vissuto per secoli e millenni, per far posto a un altro popolo sventurato e vittima non dei palestinesi, ma del razzismo fascista e nazista.
Da allora a oggi, si sono avute tre guerre disastrose, centinaia di migliaia di morti, ma nessun accordo definitivo di coesistenza pacifica.
A 63 ani da quella storica decisione, le parti si sono invertite. I palestinesi e gli arabi l’hanno accettata mentre i vari governi israeliani, chi più chi meno, l’hanno violata a più riprese, con l’obiettivo di modificare a loro favore il piano di ripartizione della Palestina e della stessa città di Gerusalemme.
Con ciò non si vuol dire che i torti, gli errori stiano tutti da una parte e le ragioni tutte dall’altra. No. Torti e ragioni si riscontrano in entrambe le parti, anche se non in egual misura.
Tuttavia, il torto dell’occupante è sempre più grave e inaccettabile che quello commesso dall’occupato, sovente per disperazione.
L’occupazione di un altro popolo è per se stessa un’ingiustizia insopportabile, per chiunque.
Per capire meglio la tragedia dei palestinesi forse bisognerebbe provare a mettersi nei panni di questo popolo prima cacciato dalle sue terre e case, esiliato e ghettizzato in vari paesi del Medio Oriente e poi occupato, diviso, discriminato, affamato e, di tanto in tanto, massacrato da uno degli eserciti più potenti della terra. Credo che nessuno in Occidente o altrove si sarebbe rassegnato a subire, per così lungo tempo, una siffatta umiliazione.
Riesplode la questione di Gerusalemme
Siamo di fronte una situazione pericolosamente bloccata, sempre più gravida di tensioni che rischia di esplodere da un momento all’altro. Giacché più la pace si allontana più la guerra si avvicina.
E così, fra le tante questioni irrisolte, è ritornata, drammatica e urgente, quella di Gerusalemme, del presente e del futuro di questa martoriata città che, dopo cinque mila anni di storia, fa ancora parlare di se.
Città “santa”, culla delle tre principali religioni monoteiste. Città dolente dove a brevi periodi di pace si sono alternati lunghi periodi di tensioni e di conflitti così distruttivi e sanguinosi da far dubitare, talvolta, della sua santità. Pur con tutto il rispetto dovuto ai luoghi santi e agli autentici sentimenti religiosi.
Ma lasciamo la storia e andiamo alla vicenda attuale di questa città di nuovo al centro di una dura polemica fra palestinesi e israeliani per la decisione di quest’ultimi di autorizzare la costruzione di una serie di nuove abitazioni nella zona est di pertinenza della popolazione arabo-palestinese.
Non è questa la prima violazione della partizione di Gerusalemme. Probabilmente, non sarà nemmeno l’ultima visto che il ministro degli esteri israeliano, Lieberman, ha annunciato la costruzione di altri 1600 appartamenti nei mesi a venire.
Com’è noto, il focoso ministro integralista con quest'annuncio ha inteso dare il “benvenuto” a Biden, vicepresidente Usa, nel giorno in cui sbarcava in Israele per invitare alla prudenza i suoi dirigenti, a modificare la pericolosa rotta intrapresa.
Netanyahu è riuscito, dove gli arabi non hanno potuto
Insomma, una sfida altezzosa anche nei confronti del potente e fidato alleato di sempre.
E’ altrettanto noto che tale programma è stato confermato e solennemente ribadito dal premier Netanyahu a Washington di fronte al Congresso e ai principali esponenti dell’Amministrazione Usa, presidente Obama compreso.
Questo viaggio resterà memorabile visto che Netanyahu è riuscito dove mai gli arabi, anche i più moderati, avevano potuto: raffreddare le relazioni politiche fra Usa e Israele e quindi accrescere il suo isolamento internazionale.
Percezione più che evidente specie dopo l’incontro col presidente Obama cui, per la prima volta, non è seguito un comunicato congiunto.
Del resto, meglio così. Altrimenti si sarebbero dovute registrare, pubblicamente e per iscritto, le gelide distanze fra amministrazione Usa e governanti israeliani a proposito degli annunciati nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme est.
Se ci fate caso, mai un leader israeliano s’era spinto a tanto. Strano! Poiché questa sfida azzardosa potrà determinare l’isolamento pressoché totale d’Israele nel mondo e rischia d’indebolire il sostegno degli Usa ossia dell’unica potenza sua alleata strategica.
L’auto-isolamento e la sicurezza d’Israele
Un comportamento inaudito che fa sorgere più di una perplessità e qualche domanda.
Così procedendo la sicurezza d’Israele si rafforza o s’indebolisce? Che ne sarà del processo di pace con i palestinesi? E anche con la Siria, con il Libano? Se dovesse saltare il “processo di pace” cosa potrà succedere in Medio Oriente, nel Mediterraneo?
Senza dimenticare che resta aperta, drammaticamente, l’intricata questione nucleare iraniana che i dirigenti israeliani si riservano di risolvere unilateralmente, alla loro maniera.
Considerazioni e domande che evidenziano il pericolo di un isolamento d’Israele, anzi di un auto-isolamento, visto che è indotto soprattutto dall’inedita arroganza del duo Lieberman-Netanyahu.
Insomma, il governo Netanyahu, così procedendo, non credo che stia rendendo un buon servizio alla causa della pace in quella tormentata regione e alla stessa sicurezza d’Israele.
All’interno della coalizione di destra sembra essersi attivata una dinamica concorrenziale fra estremisti religiosi e estremisti politici a chi la spara più grossa, contro i palestinesi.
Insomma, una dinamica avventurista che, oltre a violare pesantemente i diritti delle popolazioni dei territori occupati, mortifica, vanifica gli sforzi anche di coloro che nel campo palestinese hanno gestito, un po’ prosaicamente in verità, il dopo - Arafat.
Una pericolosa impasse che fa nascere altre domande preoccupanti. Se Abu Mazen dovesse abbandonare o essere rimosso chi verrà al suo posto? I governanti israeliani potranno continuare a scegliersi “il nemico”?
La “guerra fredda” è finita e Israele è lontano dal Pacifico.
Forse, i dirigenti israeliani confidano troppo nella loro superiorità militare, convenzionale e nucleare, e poco o nulla sulla soluzione politica e diplomatica.
Speriamo di no. Tuttavia, si deve sapere che un’eventuale opzione militarista innalzerebbe, e di molto, il livello del rischio per la pace in M.O. e nel Mediterraneo.
Opzione miope, oltre che avventurosa, che non tiene conto dei mutamenti intervenuti sul terreno degli assetti economici e commerciali e degli equilibri geo-strategici mondiali.
I governanti israeliani, forse, dimenticano che l’evoluzione del loro piccolo, bellicoso Stato è, in gran parte, frutto della “guerra fredda” (Est-ovest) che è finita da un pezzo.
Lo spostamento del baricentro degli interessi fondamentali del mondo verso l’area del Pacifico inevitabilmente farà perdere valore al ruolo strategico sin qui giocato da Israele.
Anche all’interno dello scacchiere mediorientale dove gli Usa conservano ottimi rapporti con le petro-monarchie del Golfo e, avendo liquidato Saddam Hussein e il suo regime (per altro senza il concorso d’Israele), hanno rimosso il principale ostacolo sulla via del pieno controllo delle immense risorse d’idrocarburi irachene e dell’intera regione. Tranne quelle dell’Iran. Ma questa è un’altra storia che interessa tantissimo la Cina.
Insomma, le carte e gli interessi si stanno rimescolando. E Gerusalemme è lontana, molto lontana dall’oceano Pacifico ossia dall’area dove si svolgeranno, nel bene e nel male, le nuove sfide destinate a segnare il nuovo secolo.
La popolazione di Gaza in semischiavitù
Per altro, c’è da notare che i governanti israeliani non sono, certo, i campioni dei diritti umani e della legalità internazionale. Quantomeno, non hanno tutte le carte in regola.
Giacché non si possono occupare militarmente, per 43 anni, territori di altri popoli, ridurre in condizioni di semischiavitù la popolazione palestinese di Gaza, massacrarla con operazioni sanguinose come quella famigerata denominata “piombo fuso” che ha fatto strage di circa duemila persone fra vecchi, donne e bambini.
Così come non si possono trattare con piglio obiettivamente razzistico i popoli più deboli della regione (palestinesi, libanesi, ecc).
Se ricordate, nel 2006, prima della brutale operazione “piombo fuso” (severamente condannata dagli inviati dell’Onu), il governo israeliano aveva scatenato una terribile tempesta di fuoco su Beirut e sul Libano meridionale per liberare due suoi soldati fatti prigionieri da Hezbollah sull’incerta linea di confine israelo - libanese.
Una guerra-lampo (che non fece molto onore ai suoi promotori nemmeno dal punto di vista militare) che per liberare due soldati provocò enormi devastazioni e più di 1.300 vittime libanesi, in gran parte civili.
Evidentemente, per i dirigenti israeliani la libertà di due loro uomini vale di più della vita di migliaia di altri uomini. Una concezione che puzza d’intolleranza, di disprezzo per la vita degli altri. Qualcosa che abbiamo già visto in altre parti del mondo e in altri tempi a danno di altri popoli e degli stessi ebrei.
Berlusconi: un’amicizia a corrente alternata
Il metodo terrorista islamista e di altra natura e coloritura è da condannare e combattere senza riserve, in Israele e altrove. Su questo non c’è dubbio. Il terrorismo comunque e da chiunque esercitato, anche quello di Stato che massacra più gente innocente, va prevenuto e rimosso dai nostri orizzonti. La politica non si può fare, davvero, con gli attentati e le bombe dal cielo. La violenza ci ripugna, tuttavia se proprio a questa si deve ricorrere allora che la guerra si faccia fra eserciti regolari e di liberazione. Poiché nemmeno una grande causa come la libertà del popolo autorizza il ricorso al metodo terrorista indiscriminato.
Anche se non tutto può essere ridotto a “terrorismo”, ma va fatta una distinzione fra chi mette le bombe nei mercati o sui bus e chi combatte con altre armi per liberare la propria terra occupata da eserciti stranieri.
Comunque sia, c’è una grande sproporzione nelle rappresaglie israeliane. Tutti i numeri delle carneficine lo stanno a dimostrare. Un’inquietante asimmetria che si spiega soltanto con una scarsa considerazione del valore della vita delle sue vittime di turno: palestinesi, libanesi, ecc.
Una linea di condotta disdicevole che è stata ripetutamente condannata dalla comunità internazionale e perfino da ampi settori della società israeliana i cui esponenti rischiano, ancora oggi, la discriminazione e la galera per difendere i valori umani e di pace posti a base della fondazione dello Stato d’Israele.
E’chiaro che, di questo passo, ci si aliena la solidarietà internazionale. Al massimo si potrà ottenere qualche dichiarazione di amicizia a corrente alternata, come quella che ha fatto, recentemente, Berlusconi alla Knesset.
Purtroppo, e lo diciamo con tristezza, in questa vicenda un prezzo lo sta pagando anche l’Italia in termini d’immagine e di credibilità della sua politica estera che, fra baciamano (a Gheddafi) a Tripoli e amicizie a corrente alternata fra Gerusalemme e Ramallah, sta compromettendo la dignità di una tradizione in cambio di non si sa bene cosa.
Gerusalemme: la lunga lista delle violazioni israeliane
Questi i fatti recenti che giornali e tv hanno illustrato, anche se non si son presi la briga di spiegare perché si è giunti a un punto così critico.
Per giustificare le nuove colonie ebraiche nella “città santa” Netanyahu ha detto in Usa, e continua a ripetere in patria, che “Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale d’Israele”.
Una bella frase a effetto che però sorvola sull’iter doloroso, sanguinoso che ha segnato questa città negli ultimi decenni e sulle numerose decisioni di condanna assunte dall’Onu, da altri organismi intergovernativi, dallo stesso Vaticano.
Il discorso sarebbe troppo lungo, perciò ci fermiamo. Del resto, chi desidera documentarsi sulla materia può consultare la vasta documentazione prodotta dalle Nazioni Unite e da altri organismi internazionali.
Per agevolarne l’approccio, segnaliamo, di seguito, i passaggi più significativi di un documento elaborato e diffuso dall’Onu (“Le statut de Jérusalem”, New York, 1997) che ricostruisce l’exursus storico e politico della questione di Gerusalemme.
Pag. 1: Un regime internazionale speciale per Gerusalemme
“L’Onu, che tende a dare una soluzione permanente al conflitto (arabo-israeliano n.d.r.), adotta nel 1947 un piano di spartizione della Palestina che prevede la divisione della Palestina in uno Stato arabo e uno Stato ebraico e la costituzione della città di Gerusalemme in corpus separatum sotto regime internazionale speciale, amministrata dal consiglio di tutela dell’Onu.”
Pag. 2: La comunità internazionale considera nulla l’annessione della “Città santa”
“Dopo la guerra del 1967, Israele s’impadronisce di Gerusalemme-est (settore arabo n.d.r.) e dei territori palestinesi e fa sparire la linea di demarcazione fra i settori est e ovest…Israele che ha già annesso Gerusalemme – est, proclama, nel 1980, “Gerusalemme intera e riunificata la capitale d’Israele”…
“Tuttavia, la pretesa israeliana su Gerusalemme non è riconosciuta dalla comunità internazionale che condanna l’acquisizione dei territori mediante la guerra e considera come nullo e non avvenuto ogni cambiamento sul terreno”.
Pag. 9: Gli arabi disposti ad accettare il regime internazionale su Gerusalemme
“La commissione di conciliazione (di cui alla risoluzione n. 194 adottata dall’Assemblea generale dell’Onu l’11 dicembre 1948) fa sapere che le delegazioni arabe erano, nell’insieme, pronte a accettare il principio di un regime internazionale per la regione di Gerusalemme a condizione che l’Onu ne garantisse la stabilità e la permanenza. Israele, dal suo lato, riconoscendo che la Commissione è legata alla risoluzione 914 dell’Assemblea generale, dichiara che non può accettare senza riserve che i Luoghi santi siano posti sotto un regime internazionale o sottomessi a un controllo internazionale.”
Pag. 11: Gerusalemme, corpus separatum
“…l’Assemblea generale (dell’Onu ndr) riafferma le disposizioni del piano di ripartizione secondo il quale Gerusalemme sarà un corpus separatum amministrato dalle Nazioni Unite, l’Assemblea invita il Consiglio di tutela a concludere la messa a punto dello Statuto di Gerusalemme…e chiede agli Stati interessati d’impegnarsi formalmente a conformarsi alle disposizioni della risoluzione…(n. 333)”
Giordania e Israele contrari all’internazionalizzazione di Gerusalemme
“Il Consiglio di tutela adotta uno Statuto dettagliato per la città di Gerusalemme nel gennaio 1950… Il consiglio fa sapere che la Giordania non è disposta a discutere alcun progetto d’internazionalizzazione. Per parte sua, Israele si oppone all’internazionalizzazione della regione, ma resta disposto a accettare il principio di una responsabilità diretta dell’Onu sui Luoghi santi…”
“Israele dichiara che lo Statuto non può essere applicato a causa della creazione dello Stato d’Israele e del fatto che la parte occidentale di Gerusalemme fa parte ormai del suo territorio..”
Pag. 12: Dayan, occupa Gerusalemme
Il generale Moshe Dayan, vincitore della guerra lampo detta dei “sei giorni” dichiara il 7 giugno 1967: “le forze armate israeliane hanno liberato Gerusalemme. Noi abbiamo riunificato questa città divisa, capitale d’Israele. Siamo rivenuti nella Città santa e non ce ne andremo più”
Pag. 13: le autorità d’occupazione sciolgono il consiglio municipale di Gerusalemme est
“Secondo un rapporto di M. Thalmann, (rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per Gerusalemme) il 29 giugno 1967 un ordine della difesa militare (israeliana ndr) ha sciolto il Consiglio municipale composto di 12 membri che assicura la gestione di Gerusalemme - est sotto l’amministrazione giordana…Il Consiglio municipale di Gerusalemme - ovest, composto da 21 membri tutti israeliani, assorbe il vecchio consiglio, il personale tecnico arabo del municipio di Gerusalemme- est viene incorporato nei servizi corrispondenti della nuova amministrazione.”
Pag. 15: la Knesset proclama Gerusalemme riunificata capitale d’Israele
“Il 29 luglio 1980, malgrado l’opposizione della comunità internazionale, la Knesset (parlamento israeliano ndr) adotta la “Legge fondamentale” su Gerusalemme che proclama Gerusalemme, intera e riunificata, capitale d’Israele, sede della presidenza, della Knesset, del governo e della Corte suprema.”
Pag. 20: nuove colonie ebraiche nelle terre dei palestinesi
“Si apprende che la gran parte dei beni palestinesi di Gerusalemme - est e dei dintorni è stata sottratta dalle autorità israeliane (mediante espropri e confische) in cinque tappe:
Gennaio 1968, circa 400 ettari nel quartiere Sheikh Jarrah dove vengono impiantate le prime colonie ebraiche per un totale di 20.000 persone;
Agosto 1970, circa 1.400 ettari in favore delle colonie di Ramat, Talpiot-est, Gilo e Neve Ya’acov dove vivono attualmente circa 101.000 ebrei;
Marzo 1980, circa 440 ettari destinati all’impianto della colonia di Pisgat Ze’ev destinata ad accogliere 50.000 ebrei;
Aprile 1991, circa 188 ettari per la realizzazione della colonia di Har Homa per un totale di 9.000 appartamenti;
Aprile 1992, circa 200 ettari sono destinati alla creazione della nuova colonia di Ramat Shu’fat per un totale di 2.100 nuovi appartamenti.
Pag. 27: il Consiglio di sicurezza dell’Onu esige il ritiro d’Israele dai territori occupati
“Nella famosa risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967, il Consiglio di sicurezza dell’Onu… sottolinea l’inammissibilità dell’acquisizione di territori mediante la guerra e afferma che il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite esige il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati e il rispetto della sovranità, dell’integrità e dell’indipendenza politica di ogni Stato della regione.”
Pag. 28: Israele non applica la Convenzione di Ginevra
“Israele non ha riconosciuto l’applicabilità della Convenzione di Ginevra ai territori occupati dopo il 1967 col pretesto che non esiste alcuna sovranità legittima su questi territori dopo la fine del mandato britannico…”
“Il Consiglio di sicurezza nel 1979 ribadisce che la quarta Convenzione di Ginevra era applicabile ai territori arabi occupati da Israele dopo il 1967, compresa Gerusalemme…La decisione presa da Israele nel 1980 di promulgare una legge per l’annessione ufficiale di Gerusalemme est e che proclama la città unificata come capitale d’Israele è stata fermamente respinta non solo dal Consiglio di sicurezza e dall’Assemblea generale dell’Onu, ma anche da diverse organizzazioni.
Pag. 30: l’Europa riconosce il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione
“I Paesi europei hanno avanzato proposte che riconoscono il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese; essi hanno sottolineato che non accettano “alcuna iniziativa unilaterale che ha lo scopo di mutare lo statuto di Gerusalemme” e che “ ogni accordo sullo statuto della città dovrà garantire il diritto di libero accesso per tutti ai Luoghi santi”
(Dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1980 dei vertice dei Capi di stato e di governo della Cee)
Pag. 31: l’OLP, dichiara l’indipendenza della Palestina e riconosce lo stato d’Israele
Nel 1988, dopo la decisione della Giordania di rompere i suoi legami giuridici e amministrativi con la Cisgiordania, il Consiglio nazionale palestinese (Parlamento palestinese in esilio) ha adottato la Dichiarazione d’indipendenza e pubblicato un comunicato politico dove dichiara di accettare la risoluzione n.181 dell’Assemblea generale dell’Onu (sulla divisione del territorio ndr) e la risoluzione n. 242 (del 1967) del Consiglio di sicurezza e proclama “la nascita dello Stato di Palestina sulla terra palestinese, con capitale Gerusalemme”
Pag. 33: il consiglio di sicurezza chiede a Israele di smantellare le colonie
“La risoluzione n. 465 del 1 marzo 1980 contiene la dichiarazione più dura che il Consiglio di sicurezza ha adottato sulla questione delle colonie di popolamento. In questa dichiarazione, il Consiglio deplora vivamente il fatto che Israele ha rigettato le sue risoluzioni precedenti e rifiutato di cooperare con la Commissione ( Onu)…
Il Consiglio qualifica la politica e le pratiche volte a impiantare nuove colonie di popolamento una “violazione flagrante” della quarta Convenzione di Ginevra e dice che sono “un grave ostacolo” all’instaurazione della pace in Medio Oriente; chiede al governo e al popolo israeliani di revocare le misure prese, di smantellare le colonie esistenti e di cessare subito ogni attività di colonizzazione. Chiede anche a tutti gli Stati di non fornire a Israele alcuna assistenza che sarà utilizzata specificamente per le colonie di popolamento dei territori occupati”.
5 Aprile 2010.
PS: le vittime ci sono più care dei loro oppressori.
Ho scritto queste note né per la gloria né per un padrone, ma solo per dovere civile e morale verso la tragedia umana e politica del popolo palestinese.
L’articolo è lungo, ma nessuno è obbligato a leggerlo e/o a pubblicarlo. D’altronde, io non sono una grande firma, ma solo un osservatore, incerto e solitario, dei fatti del mondo. Dietro e davanti a me non c’è nessuno. Per queste materie mi è negato l’accesso alla “carta stampata”.
Perciò, per comunicare ho creato un giornalino on line (www.infomedi.it) cui affido queste note, sperando che da qualche parte arrivino.
Una piccola goccia d’acqua che scivola sopra un enorme blocco di granito. Anche se l’acqua possiede una forza potente, misteriosa, penetrante che alla fine lo perforerà. Non a caso, in certe situazioni, quella goccia può diventare strumento di una fra le più raffinate forme di tortura.
D’altra parte, il web possiede, già oggi, grandi potenzialità comunicative che sempre più si accresceranno e soprattutto consente un privilegio che altri non hanno: interloquire con i giovani i quali, prima o poi, si desteranno dal torpore alienante del consumismo e chiederanno conto e ragione di tutte le ingiustizie del mondo.
Perciò, per quanto difficile sia il tempo presente, ognuno dovrebbe far sentire la propria voce. In ballo ci sono il destino, il benessere di tanti popoli, il futuro della pace nel Mediterraneo e nel mondo.
Parlare e agire, anche a costo di attirarci il facile anatema dell’antisemitismo, come qualche volta (mi) è accaduto.
Sì, perché, da un certo tempo, in Italia e non solo, è invalsa la cattiva abitudine di bollare come “antisemita” chiunque dissenta e osi criticare certe scelte e condotte dei governanti israeliani.
Un’accusa ormai abusata, vagamente intimidatoria e, per altro, imprecisa (secondo il racconto biblico, “semiti” dovrebbero essere anche gli arabi) che certo non aiuta la libera circolazione delle opinioni.
In ogni caso, tale accusa non mi tange perciò la respingo al mittente. Rivendico la mia, la nostra, libertà di pensiero e di critica secondo i principi della Costituzione italiana e non secondo i canoni di questa o quell’altra religione. La mia cultura e pratica di vita non sono razziste ma solidali con tutti gli uomini e le donne del pianeta.
Se in questa dolorosa vicenda spesso mi sono spesso ritrovato dalla parte dei palestinesi e dei loro leader più prestigiosi (fra i quali l’indimenticato Yasser Arafat) non è per contrarietà preconcetta verso il popolo israeliano, ma per solidarietà verso il popolo martire di Palestina ancora occupato, assediato dagli eserciti israeliani.
Insomma, le vittime ci sono più care dei loro oppressori. Capita. Come sempre mi è capitato, e con grande commozione, di fronte alle immagini, anche cinematografiche, della “shoah”, della terribile tragedia degli ebrei massacrati dai nazisti e dai fascisti europei. E se tutto ciò non dovesse bastare, aggiungo che sono orgoglioso di essere figlio di un operaio siciliano, recentemente insignito (purtroppo alla memoria) della Medaglia d’onore del Presidente della Repubblica italiana, che fu ristretto nei lager della Germania nazista per essersi rifiutato, dopo l’8 settembre 1943, di combattere con gli eserciti nazi-fascisti.
(biografia essenziale dell’autore, al sito: www.itawiki.com/agostino_spataro.html?PHPSESSID )
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