( Saddam Hussein )


SADDAM E L'ITALIA
di Agostino Spataro

Per un bel po’, ce ne ricorderemo delle agghiaccianti immagini dell’impiccagione di Saddam Hussein. Soprattutto, del contegno del condannato nel momento estremo del passaggio dalla vita alla morte. Non so se calcolato, ma in questo drammatico frangente il dittatore iracheno si è mostrato padrone della sua morte, trasformandola in un formidabile colpo propagandistico assai imbarazzante per gli esecutori e per il mandante politico dell’impiccagione che, a quell’ora, fingeva di dormire nel suo ranch texano.

La vita di Saddam è lastricata di orrori indicibili, ma la sua morte è stata una sorprendente lezione di dignità. Egli, che aveva una certa familiarità con la morte violenta (degli altri), ha usato la sua per riaffermare il suo smisurato orgoglio, affrontandola a viso aperto quasi collaborando coi due boia incappucciati che gli stringevano il cappio intorno al collo.

Finzione o realtà ? La risposta è difficile, ma credo che questa morte abbia molto impressionato i suoi seguaci e in generale la gente che ha assistito al triste spettacolo.

Una morte dignitosa che, certo, non può far dimenticare la sua lunga e crudele dittatura. Al pari di altri decine di dittatori esistenti nel mondo che continuano, indisturbati e riveriti, a servire gli interessi delle grandi multinazionali Usa e non solo.

Com’era riverito Saddam, il sanguinario, il quale- se ci fate caso- è stato mandato alla forca in base ad un processo-farsa e per un delitto compiuto nel 1982, nell’indifferenza generale, quando gli attuali suoi acerrimi nemici attuali, d’Oriente e d’Occidente, lo blandivano come baluardo della civiltà occidentale, magari per strappargli contratti miliardari.

Non bisogna dimenticare, infatti, che c’è stato un tempo, non tanto remoto, in cui molti governi occidentali e arabi (dagli Usa all’Arabia saudita, passando per l’Europa, Italia compresa) mobilitarono i loro potenti media per presentare Saddam all’opinione pubblica mondiale come l’eroe che, muovendo guerra contro l’Iran della rivoluzione sciita, s’interponeva come una diga armata (dalla Nato e dal Patto di Varsavia) fra la minaccia khomeynista e gli immensi giacimenti di petrolio iracheni e della penisola arabica.

Già in quella guerra, il dittatore iracheno usò le armi chimiche, ma nessuno in Occidente si scandalizzò più di tanto. Addirittura, nel consiglio di sicurezza e nell’Assemblea dell’Onu furono bocciate diverse risoluzioni di condanna presentate dall’Iran.

Finita la guerra contro l’Iran, per Saddam comincia una strana e, per lui, inattesa metamorfosi: da baluardo a nemico degli interessi occidentali nella regione.

Allora tutto era consentito al grande dittatore che, per conto dell’occidente, stava salvando i pozzi di petrolio e che continuava ad acquistare costosi sistemi d’arma dai principali paesi della Nato e del blocco orientale.

Un affare lucroso, per centinaia di miliardi di dollari, al quale parteciparono diverse imprese italiane, pubbliche e private, che vendettero all’Iraq in guerra armi di ogni tipo e componenti per costruire il temutissimo “supercannone” e materiali per la fabbricazione di ordigni chimici, usati contro gli iraniani e nelle repressioni contro curdi e sciiti iracheni.

Chi si vuol documentare su questo turpe commercio può consultare le lunghe liste d’imprese fornitrici, fra le quali molte italiane, o andare a sbirciare fra le carte dell’inchiesta sulla filiale di Atlanta della Banca nazionale del lavoro che restò impigliata nella trama di uno dei più grandi scandali internazionali del secolo scorso.

Nell’epoca d’oro del catto-craxismo, l’Iraq era l’ospite d’onore. Furono organizzati convegni e ricevimenti sontuosi per accogliere qualificate delegazioni ministeriali irachene che venivano a Roma e in altre città italiane a comprare di tutto. Fu in quel tempo, auspice il ministro della difesa Lagorio, che l’Italia vendette all’Iraq in guerra un’intera flotta militare per un valore di 1.200 miliardi di lire.

Ricordo che, a copertura di questa colossale operazione, fu ideata in ambienti socialisti un’associazione di amicizia italo-irachena che prima di nascere aveva un presidente designato: l’on. Seppia del PSI. Tuttavia, per risultare più convincente, l’associazione doveva essere “unitaria”, comprendere cioè rappresentanti della Dc e del PCI che era molto critico sulla politica di Saddam e diffidente sull’improvvisa apertura di credito italiana.

Ci furono ripetute insistenti richieste di una nostra partecipazione, anche al massimo livello. Fu così che, seppure restio, mi ritrovai co-vicepresidente in rappresentanza del Pci (l’altro era il democristiano on. Aiardi) di questo sodalizio che abbandonai, precipitosamente, a poche settimane dall’insediamento. Nulla di straordinario, soltanto un piccolo episodio che aiuta a capire il clima di allora e a meglio individuare responsabilità ed omissioni di partiti e imprese italiani che, pur di realizzare affari, finsero d’ignorare i massacri a danno delle popolazioni curde e sciite e la feroce repressione contro un’intera generazione di comunisti. Stranamente nessuno lo ricorda, ma le prime vittime di Saddam furono i dirigenti del Partito comunista iracheno, il più importante del Medio Oriente, incarcerati, torturati e sovente uccisi per essersi opposti alla nascente dittatura.

Se si fossero celebrati processi equi e internazionalmente garantiti molte di queste responsabilità sarebbero venute alla luce e l’opinione pubblica avrebbe meglio capito le nefaste conseguenze dei comportamenti omissivi di allora e quelle dell’iniqua guerra di occupazione attuale che di vittime ne ha mietuto a centinaia di migliaia. Invece si è scelto di fare un processo-farsa, all’insegna della vendetta tribale, per evitare l’imbarazzo di una ricostruzione integrale, magari con la collaborazione degli imputati, di oltre un ventennio di disinvolta cooperazione fra il regime tirannico di Bagdad e le principali cancellerie ed imprese occidentali.

Agostino Spataro

2/1/2007


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