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(PUNTI DI VISTA)


ISRAELE - PALESTINA:
cronaca di un'aggressione annunciata
(di Jean - Paul Chagnollaud )

(Pubblichiamo alcuni stralci di un interessante saggio di J.P. Chagnollaud apparso sulla rivista francese "Confluences Méditerranée", n. 40, Inverno 2001-2002).


Gerusalemme

A metà dicembre, in pochi giorni di odio e di violenza distruttiva, Ariel Sharon ha frantumato con i suoi carri armati, i suoi F16 e i suoi elicotteri tutto ciò che il processo di Oslo aveva apportato di costruttivo per tentare di superare il lancinante conflitto che, da molto tempo, oppone israeliani e palestinesi.

Egli ha voluto, così, uccidere tutte le speranze create dalla Dichiarazione di principio del 1993 nella quale le due parti affermavano "che è tempo di mettere fine a decenni di conflitto, di riconoscere i loro reciproci diritti legittimi e politici, di sforzarsi di vivere nella coesistenza pacifica, nella dignità e nella sicurezza e di giungere ad un accordo di pace giusta, globale e durevole ed anche ad una riconciliazione storica nel quadro di questo processo politico".

Questa svolta aggressiva rivolta contro l'Autorità e il popolo palestinese non è una sorpresa, poichè è stata pianificata da molto tempo. Già dalla sua investitura nel marzo del 2001, Sharon sapeva esattamente dove voleva andare, non soltanto per distruggere il suo avversario di sempre, Yasser Arafat- che non aveva potuto assassinare durante l'assedio di Beirut nel 1982-, ma soprattutto per eliminare l'Autorità palestinese…

Il suo (di Sharon n.d.r.) governo di unità nazionale- bisogna ricordarlo?- è formato in maggioranza da responsabili di destra e d'estrema destra a fianco dei quali Jean Marie Le Pen farebbe la figura di un ameno radical-socialista. Essi sono presi dalla stessa ossessione: ridurre in cenere il processo di Oslo che giudicano mortale per Israele…

Quanto a Shimon Peres, smarrito in questa coalizione di estremisti nella quale è entrato più per ambizione personale che per convinzione, fino ad ora è servito soprattutto a mascherare a livello internazionale la vera natura politica di questo governo.

Pertanto le cose sono state chiare fin dall'inizio. A più riprese Ariel Sharon ha ricordato i suoi obiettivi, in particolare in una importante dichiarazione al giornale israeliano Ha'aretz (dell'aprile 2001) dove disse esattamente: "La nostra guerra d'indipendenza non è ancora terminata. Dal punto di vista strategico, è possibile che in dieci o quindici anni, il mondo arabo non avrà la stessa capacità di oggi di colpire Israele. Israele sarà un paese con una economia florida mentre il mondo arabo sarà in declino…La conclusione è che il tempo non lavora contro di noi e bisogna profittarne…".

In una tale prospettiva, non è questione di fare la minima apertura verso i Palestinesi: nin viene nemmeno evocato il problema cruciale dei rifugiati, poiché l'idea stessa del ritorno dei palestinesi gli è insopportabile; l'evacuazione delle colonie non è "assolutamente considerata" tanto più che lui, da lungo tempo, è il principale responsabile della loro costruzione e del loro sviluppo da più di 20 anni; per Gerusalemme, egli dice tranquillamente che "noi non abbiamo semplicemente il diritto di fare la minima concessione"; quanto ad uno Stato palestinese, se bisogna farlo, sarà "il minimo necessario", cioè poco più del 42% che i palestinesi sono in grado di controllare oggi…Ma, ben inteso, meglio sarebbe che non nascesse affatto...

Tutti i parametri che hanno condotto a questo tragico deterioramento della situazione nei territori palestinesi sono stati così molto rafforzati al punto che oggi diventano più plausibili i peggiori scenari fondati su una specie di ripetizione dell'aggressione israeliana al Libano nel 1982.

A quel tempo, Sharon e Begin avevano per obiettivo di distruggere l'OLP completamente e con ogni mezzo; oggi è l'obiettivo è lo stesso: eliminare Arafat e l'Autorità palestinese.

Nel 1982, il segretario di Stato americano, Alexandre Haig, diede il suo fuoco verde all'aggressione israeliana; oggi tutto sembra mostrare che un'altra amministrazione repubblicana abbia autorizzato Sharon ad attaccare i Palestinesi per costringerli, estenuati, ad un tavolo di "negoziato" dove saranno loro imposte le condizioni della loro resa.

Quando Donald Rumsfeld, il segretario americano alla Difesa, dichiara che Yasser Arafat non ha apportato nulla al suo popolo e che non è un vero leader, bisogna attendersi di tutto, come se si fosse ritornato a l'epoca, ben prima di Oslo, nella quale Arafat era considerato come un personaggio infrequentabile. Ciò significa che gli americani non hanno appreso nulla dell'11 settembre. Si poteva in effetti pensare che il dramma che li aveva colpiti li avrebbe portati a riflettere sulla loro politica per rilevarne le lacune, i deficits e le insufficienze, che invece di attenersi ad una scelta esclusivamente di tipo militare, essi potevano riflettere seriamente e mettere in atto coraggiose iniziative diplomatiche capaci di rimuovere le cause profonde della fiammata terrorista…Illusioni! Bisogna dunque sapere che la vittoria rafforza l'arroganza e dunque che ineluttabilmente altri drammi sono già in gestazione.

Perciò il governo israeliano, che sente di avere le mani libere per agire nei territori palestinesi, autorizza i suoi ministri a dire ciò che si discute nelle loro riunioni di governo.

Ouzi Landau, ministro israeliano della sicurezza interna, ha fatto le seguenti dichiarazioni al quotidiano "Le Monde" del 14 dicembre 2001: "Lanciando i suoi aerei contro le torri gemelle di New York, Ben Laden ha voluto umiliare la nostra civiltà occidentale. Lo stesso qui, i terroristi vogliono mettere fine all'esistenza d'Israele…Gli accordi di Oslo non sono la soluzione, ma il problema…Noi dobbiamo prendere delle misure più drastiche per lottare contro l'Autorità palestinese: uccidere i suoi soldati, distruggerne gli edifici, strangolarla finanziariamente…Il prezzo sarà pesante…Quando ai responsabili politici, che se ne ritornino a Tunisi! Per i piani di pace, si vedrà dopo. Ciò che è sicuro, è che giammai accetteremo l'esistenza di uno Stato palestinese. Questa sarebbe una catastrofe…"

Le gravi responsabilità di Hamas


In questa analisi è indispensabile mettere in conto la grave responsabilità di Hamas i cui attentati-suicidi, che bisogna condannare senza la minima riserva, hanno contribuito a dare a Sharon la libertà d'azione che sperava.

Le ambiguità della resistenza all'occupazione e dunque della lotta di liberazione che emergono dalle azioni dei Palestinesi, ci dicono che non hanno una chiara strategia comune.

Fatah, e con esso altri gruppi politici, hanno per obiettivo il ritiro del Tsahal e dei coloni dalla Cisgiordania e da Gaza. Essi sono determinati a condurre questa lotta dentro i territori palestinesi, ma si rifiutano di portare attacchi dentro il territorio d'Israele…

Hamas- come si sa- si colloca su un'altra linea politica: giacché rifiuta ogni legittimità allo Stato d'Israele, non fa alcuna differenza fra la Cisgiordania, Gaza e i territori dello Stato ebraico. Poiché - secondo i membri di questa organizzazione islamista- tutti gli israeliani sono degli aggressori, bisogna combatterli con tutti i mezzi possibili dovunque essi siano, da qui questa scelta senza precedenti degli attentati-suicidi in tutto Israele, anche nei piccoli villaggi fino ad ora risparmiati dalla guerra, affinché ogni israeliano si possa sentire insicuro.

In queste condizioni, gli Israeliani non hanno alcuna ragione di fare una qualunque differenza fra le strategie degli uni e degli altri. Essi constatano che la morte giunge dappertutto a causa dei palestinesi. Sono dunque loro i colpevoli che bisogna annientare con tutti i mezzi, e Sharon è l'uomo più indicato- pensano loro- per farlo. E così ritorna la paura esistenziale che è il fondamento attuale della popolarità di Sharon.

In un tale contesto, le dichiarazioni di Yasser Arafat di condanna degli atti terroristici non hanno alcun impatto nell'opinione pubblica israeliana. Nessuno gli crede e quasi tutti l'accusano di praticare un doppio gioco e un doppio linguaggio…

La situazione è particolarmente grave. Il governo Sharon ha deciso di rompere ogni legame con l'Autorità palestinese e bloccato Arafat a Ramallah, mentre l'esercito israeliano ricerca in Cisgiordania e Gaza tutti i responsabili politici come Marwan Barghouti la cui abitazione è stata occupata.

Così Sharon ha ricusato Arafat e cerca di arrestare i dirigenti palestinesi più importanti quando non li fa uccidere. In altri termini, egli vorrebbe eliminare la leadership palestinese per non avere- in seguito- nessuno con cui negoziare…

Tutto ciò è assurdo, tragicamente assurdo. Non si può mai scegliere il proprio nemico: quando arriva il momento, è con lui che bisogna negoziare come l'avevano perfettamente compreso Rabin e Arafat facendo un gesto coraggioso necessario per uscire dal tragico ciclo della violenza. Questo è quello che non vuole capire Sharon che ha dunque preferito ritornare nel terribile ingranaggio mortale e senza uscita.

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EGITTO: tempi difficili per le banche islamiche
di Samer Soliman *


Il Cairo - Nilo

Dopo una crescita spettacolare agli inizi degli anni '80, le banche islamiche sono cadute in una fase di stagnazione. Le cause sono al contempo politiche ed economiche. Nel 1979, il Parlamento egiziano approvò all'unanimità la legge per la creazione della "Banca islamica Faycal", oggi perfino lo sceicco di Al-ahzar ne chiede addirittura la chiusura. In Egitto le banche islamiche raccoglievano nel 1986 il 9,4% dei depositi oggi soltanto il 5,4%.

Come si è giunti a questa situazione ? A questo interrogativo risponde Samer Soliman in un lungo articolo pubblicato sul settimanale egiziano "Hebdo-Ahram" del 17/1/02, di cui riportiamo i passaggi più significativi.

"La crescita di potenza e poi il declino di queste banche islamiche è molto interessante nella misura in cui si evidenzia l'interazione fra fattori politici, economici e religiosi. Bisogna collocare la creazione e l'ascesa delle banche islamiche nel contesto degli anni 1970, quando il regime di Sadat incoraggiava gli islamisti per limitare la forza della sinistra marxista e nasseriana che dominava il campo. La mano visibile dello Stato era allora dietro la crescita delle banche islamiche.

Oggi, più della metà dei capitali della finanza islamica appartiene allo Stato: l'80% del capitale della "Banca islamica per lo sviluppo"; il 40,8% della "Banca egipto-saudita" e il 20% della "Banca islamica Faycal". Per non parlare degli "sportelli islamici" istituiti presso le banche pubbliche
convenzionali.

Spiegando il declino delle banche islamiche, non si può dunque omettere l'importanza del fattore politico. Il deterioramento dei rapporti fra lo Stato e la corrente islamista alla fine degli anni 1980 e negli anni 1990 ha limitato l'incoraggiamento dello Stato all'islamizzazione della società.

Il governo ha liquidato nel 1989 le "Società islamiche di collocamento di fondi" che erano riuscite a mobilitare gran parte del risparmio concedendo interessi di gran lunga superiori a quelli concessi dalle banche.

Questa liquidazione non era solo motivata dal fattore politico, ma anche per il modo d'investimento di queste società che producevano grandi perdite nella speculazione sui metalli e sulle divise straniere. Lo stesso dicasi per le banche islamiche che hanno perduto molto denaro negli investimenti a grande rischio.

La "Banca Faycal" per esempio ha perduto circa 1,2 miliardi di dollari nel fallimento, avvenuto a Londra nel 1989, della Banca di credito e di commercio. Inoltre, alla fine degli anni '80, la Banca islamica per lo sviluppo era sull'orlo del fallimento a causa delle sofferenze per taluni crediti accordati; per salvare questa banca è dovuta intervenire la Banca centrale (tramite le grandi banche pubbliche) mediante un aumento del capitale.

Il metodo di gestione delle banche islamiche era lontano d'essere efficace. La crescita rapida che hanno conosciuto agli inizi era dovuta agli alti interessi che distribuivano e anche al fattore religioso. Ora, queste banche sono basate sull'idea che l'interesse preso e dato dalle banche convenzionali è illecito, poiché favorisce l'usura. E' così che queste banche (islamiche) dispongono di un'arma di marketing davvero molto potente, un'arma capace non soltanto d'inviare le loro concorrenti fuori mercato, ma anche all'inferno…

Ma non bisogna sovrastimare il potere della religione ad attirare i depositi: una parte della clientela delle banche islamiche era a caccia di redditi più alti rispetto a quelli elargiti dalle altre banche, ed era questo quello che le banche islamiche facevano all'inizio della loro esperienza.

La caduta di questi redditi ha incoraggiato molti a commettere di nuovo il "peccato" d'usura…

Gli ultimi anni hanno visto la demistificazione delle banche islamiche. Taluni hanno cambiato la loro convinta adesione e sono divenuti molto critici verso questo tipo di banche. La lunga lista comprende personalità assai importanti come Ahmad Al-Naggar, considerato il padre spirituale delle banche islamiche nel mondo, Ahmad Zendo, ex governatore della Banca Faycal, Ahmad Aboul-Magd, un intellettuale islamista, ecc.

Ma una delle personalità più ostile a queste banche è lo sceicco d'Al- Azhar che non si contenta di fare delle critiche "lucide", ma ha qualificato semplicemente queste banche di appartenere " a un gruppo di banditi". Secondo lui, queste banche devono scomparire, poiché qualificandosi islamiche, esse tolgono alle altre banche questa caratteristica, mentre egli pensa che le banche convenzionali siano più vicine all'Islam che le banche islamiche.

Il governo ha voluto, a più riprese, mantenere l'esistenza delle banche islamiche poiché esse rispondono a un bisogno sul mercato, quello di dare uno sbocco alla gente che cerca una via "lecita" per investire il suo denaro…."

* brani tratti da un articolo apparso sul settimanale egiziano "Hebdo Alhram", 17 gennaio 2002

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L'America del post- egemonismo
(di Aomar Baghzouz *)


11 settembre - Twin Towers

L'America sta inaugurando una nuova tappa nei suoi rapporti col resto del mondo? Ecco una domanda che merita di essere posta all'alba di un nuovo anno del terzo millennio e soprattutto dopo gli attentati anti-americani del'11 settembre che, secondo molti osservatori, segnano una rottura nelle relazioni internazionali.

Se il crollo del muro di Berlino nel 1989, segna la fine del mondo bipolare e l'affermazione degli USA come l'unico polo della potenza mondiale, la distruzione delle Torri gemelle di New York deve, secondo gli stessi analisti, segnare, se non la fine dell'egemonia americana, almeno l'evoluzione verso la creazione di un ordine internazionale multipolare, cioè a dire meno ingiusto e più equilibrato.

Ma, contrariamente a tali previsioni, il dopo-11 settembre mostra l'esacerbazione dell'egemonismo americano al punto che si è tentati di parlare di una nuova tappa qualitativamente differente dal decennio che ha seguito la dissoluzione dell'impero sovietico e che si può qualificare di "post-egemonismo".
Se l'egemonia d'una qualunque superpotenza presuppone la contestazione delle potenze regionali come fu spesso il caso, prima dell'11 settembre, della Russia o della Cina o di un polo molto potente qual'è l'Unione Europea, dobbiamo constatare che questa contestazione sembra sfumare di fronte alla gestione "muscolosa" da parte degli Americani dopo l'11 settembre.

Gli americani sono riusciti a far tacere ogni voce discordante mediante i discorsi e la dottrina che hanno sviluppato dopo la tragedia che li ha colpiti. Essi hanno sfruttato al massimo la legittima emozione provocata dagli attentati che hanno fatto 3.300 tra morti e dispersi. Una coalizione internazionale senza precedenti- non meno di 60 paesi- sostiene gli USA, i quali tuttavia si riservano il diritto di agire da soli, utilizzando, al bisogno, la NATO o l'ONU per meglio legittimare le loro azioni nella lotta al terrorismo.

E ogni contestazione della nuova strategia americana è presto qualificata come "anti-americana" o, più grave ancora, viene assimilata ad una cauzione del terrorismo internazionale.

Quando potenze regionali quali la Russia, la Cina e l'Unione Europea, grandi sostenitrici di un ordine internazionale multipolare, si allineano alla politica di difesa e di sicurezza fatta dagli USA e sussidiariamente dai loro più fedeli alleati quale la Gran Bretagna, chi oserà sfidare l'iperpotenza americana?…

Stati Uniti e Israele, primi beneficiari degli attentati dell'11 settembre

Curiosamente, l'approccio militare (Usa) richiama quello attualmente operato dal governo israeliano di Ariel Sharon verso i Palestinesi e che è stato coronato da un fallimento evidente in Cisgiordania e a Gaza.

Come sottolinea Marwan Bishara, su "Le Monde diplomatique", " a sentire parlare il presidente Bush, sembra chiaro che gli USA si orientano verso la guerra asimmetrica", nonostante il suo fallimento.

Usa e Israele, che sono i più grandi beneficiari del dopo-11 settembre, praticano dunque una politica simile per realizzare obiettivi comuni. A nome della lotta antiterrorista, Bush ha dato il suo sostegno a Sharon nella guerra contro i Palestinesi e approvato la logica dell'estrema destra al potere in Israele secondo la quale il presidente dell'Autorità palestinese, Yasser Arafat, è un terrorista alla stregua di Bin Laden.

Pertanto, all'indomani dell'11 settembre, Bush aveva, per la prima volta, riconosciuto il diritto dei Palestinesi a uno Stato, ma molti osservatori stimano che questo riconoscimento altro non era che uno stratagemma americano per allineare alle tesi americane la più ampia coalizione possibile nella lotta contro il terrorismo.

D'altronde, l'11 settembre ha dato a Bush il pretesto per rimobilitare l'apparato militare e modernizzare gli eserciti americani le cui missione, organizzazione ed equipaggiamenti sono ancora ispirati alla guerra fredda Est-Ovest. L'Amministrazione Bush vuol condurre una guerra di lunga lena contro un pericolo diffuso, ma dagli USA identificato negli Stati-paria…

Infatti, l'impressione che si ricava dalla nuova politica americana, qualificata di "post-egemonismo", è che Washington vuole militarizzare le relazioni internazionali. In assenza di un rivale alla sua altezza- il suo bilancio militare è superiore a quelli di Russia, Cina, Francia e Germania messi insieme-, gli Usa vogliono poter vincere su tutti i fronti.

Gli americani vogliono investire di più nel settore militare poiché desiderano affidare alle sole loro forze armate la difesa dei loro interessi, soprattutto all'estero, e non alle Istituzioni internazionali (Onu). Da qui il mantenimento della superiorità americana su tutti gli avversari potenziali.

Gli USA sono impegnati a portare il bilancio della difesa da 274 miliardi di dollari dell'anno 2000 a 331 miliardi nel 2005…

Un approccio pericoloso

Tuttavia, al di là della legittimità della lotta al terrorismo, l'approccio imboccato dagli Americani si dimostra pericoloso perché la storia ci insegna che la preminenza data alla guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti e delle tensioni non è stata mai una buona soluzione.

I redattori della Carta dell'Onu avevano, nel 1945, auspicato l'abolizione dell'uso della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti e avevano privilegiato le vie pacifiche e soprattutto la prevenzione mediante lo sviluppo economico e sociale equo dei paesi del Nord e del Sud.

Dopo 4 mesi dai tragici avvenimenti dell'11 settembre, la dottrina Bush sembra contraddire la visione dei padri fondatori dell'ONU.

L'attuale strategia americana è controproducente politicamente poiché una vittoria militare può determinare disastri umanitari e sociali che si possono tradurre in anti-americanismo, a sua volta nocivo allo status di superpotenza degli Usa.

Per questo bisognerà affrontare i problemi economici e sociali, in particolare nei Paesi e nelle regioni poveri e sottosviluppati, e ciò, nel quadro di una mondializzazione più "umana". Bisognerà anche inculcare alle nuove generazioni la cultura della pace al posto di quella della guerra e dello scontro, che purtroppo non si verifica in un buon numero di paesi, compresi quelli che pretendono di essere i più convinti difensori dei valori universali della pace e dei diritti dell'Uomo.

Gli Usa non possono governare il mondo da soli, a dispetto del loro statuto di superpotenza e malgrado il periodo fasto che essi attraversano dopo l'11 settembre.

Il mondo prova orrore per l'unipolarità come la natura prova orrore per il vuoto. Presto o tardi, la complessità e l'interdipendenza delle relazioni internazionali dovranno portarci a un ordine mondiale più equilibrato dove il "post-egemonismo" si tradurrà in una rimessa in causa dell'onnipotenza americana.

* Brani tratti da un articolo apparso in "La Tribune", quotidiano di Algeri, del 2/2/02.


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Numero 15
marzo 2002










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