( EDITORIALE )


NON C' E' PACE IN PALESTINA
di Agostino Spataro

Il mondo intero aveva salutato il piano di pace, elaborato in segreto sotto l'egida dell'Amministrazione USA, come un estremo tentativo per giungere ad una soluzione negoziata del cinquantennale conflitto fra israeliani e palestinesi, per evitare una nuova, terribile guerra che potrebbe divampare nel Medio Oriente e dilagare nelle zone contigue, in primo luogo verso l'area mediterranea dove restano attivi tanti focolai, vecchi e nuovi.

Per quanto sbilanciato a favore delle ragioni della parte israeliana, per quanto anomalo poiché maturato e condotto al di fuori dell'ONU, si sperava che quell'accordo potesse consentire, se non di realizzare una vera pace, almeno attivare un'incisiva dinamica di pace, in grado di resistere ai contraccolpi interni alle due parti che - era prevedibile - si sarebbero verificati.

Questi accordi, voluti fortissimamente dagli americani e imposti a due leadership in scarsa sintonia con le rispettive opinioni pubbliche, sono oggi impantanati, sostanzialmente bloccati: non si riesce  a fare un passo avanti, mentre si rischia di vanificare i modesti risultati conseguiti in quasi 10 anni di faticose trattative. Soprattutto dopo la netta vittoria elettorale del superfalco Sharon, si sono ristretti gli spazi negoziali ed è prevalso, da un lato e dall'altro, il ricorso alla lotta e alla repressione violenta, che in  sei mesi ha mietuto centinaia e centinaia di vittime. La crisi del processo di pace non è causata soltanto dall'avvento al potere di Sharon, ma anche dal fatto che è cambiato profondamente il quadro politico regionale e internazionale che aveva reso possibile l'avvio del difficile negoziato. Sono cambiati il contesto ed anche i principali protagonisti: Bill Clinton e la sua amministrazione sono fuori della scena; Peres e i laburisti israeliani hanno perduto le elezioni e s'illudono di poter proseguire il discorso pacifista dentro una coalizione che non cerca la pace ma la resa umiliante dei palestinesi; Arafat proclama al vento intenzioni impegnative, che ormai quasi nessuno raccoglie fra le fila palestinesi.

Si sperava che, a Damasco, il Papa avesse finalmente parole di chiarezza, almeno coerenti con la tradizionale posizione del Vaticano sul conflitto in M.O. e sullo status di Gerusalemme, ma non è andato oltre generiche invocazioni di pace, a malapena citate dai giornali.

Il tentativo, dunque, sembra essersi esaurito: ha prodotto qualcosa, ma non ha portato alla vera pace.

Che fare?  Nessuno possiede la ricetta risolutiva, tanto meno noi, tuttavia qualcosa la comunità internazionale deve riuscire a fare poiché, di questo passo, si corre verso il più grande disastro.

E' necessario mettere in campo un nuovo progetto che, senza smarrire i modesti risultati acquisiti, punti al pieno recupero della legalità internazionale e della salvaguardia dei diritti fondamentali dei popoli, ovvero del ruolo primario delle Nazioni Unite.

Non è ammissibile che Israele, unico Stato al mondo creato da una decisione delle Nazioni Unite, continui a non riconoscere le risoluzioni adottate dall'Organismo che lo ha generato: i governanti israeliani agiscono come un figlio che disconosce l'autorità del padre. 

Bisogna ripartire dall'ONU, in quanto soggetto istituzionalmente titolato ad intervenire in M. O. ed altrove, semmai le potenze (compresa la "superpotenza") dovrebbero favorire questo recupero di autorità e sostenere con tutti mezzi un nuovo sforzo negoziale, facendo intendere ai governanti d'Israele che al di fuori delle risoluzioni dell'ONU non esiste alcuna garanzia per la sicurezza dei suoi confini legittimi, che sono quelli tracciati dall'ONU nel 1947 e non quelli conquistati con la forza delle armi nel 1967.

A nostro umilissimo parere, Israele deve rientrare nei confini definiti dalla comunità internazionale; così come dovrà rispettare il principio di uno status internazionale di Gerusalemme. Queste nostre possono apparire rivendicazioni retrodatate, superate dagli avvenimenti, ma francamente non si intravede per questo annoso conflitto una via alternativa che possa condurre ad una pace giusta, durevole e globale nella regione.

In questo scenario c'è un ruolo politico specifico dell'Unione europea la quale deve smetterla d'indossare i panni dell'ufficiale pagatore: gli USA, tramite la Nato, promuovono le guerre e i conseguenti accordi ed armistizi ed è l'Europa a pagare la fattura delle distruzioni causate. La questione mediorientale tocca gli "interessi vitali" dell'Europa intera poiché si configura come una reale minaccia per la sicurezza del suo fianco di sud-est, per i sistemi di approvvigionamento energetico e per lo sviluppo delle relazioni economiche e commerciali.

Il conflitto arabo-israeliano già oggi, pesa moltissimo sul progetto di partenariato euromediterraneo e potrebbe divenire un ostacolo insormontabile per i futuri programmi di cooperazione, in particolare per la creazione, entro il 2010, della zona di libero scambio. La leadership europea dovrebbe elaborare ed esprimere una propria, autonoma posizione politica, da far valere nell'ambito dell'ONU, che faccia leva, in primo luogo, sul diritto delle vittime (cioè del popolo palestinese) a poter creare uno Stato sovrano. Certo bisognerà garantire anche il diritto all'esistenza e alla prosperità dello stato di Israele, senza però dimenticare che questo Stato oggi è l'occupante, il colonizzatore, il responsabile dell'asservimento economico e commerciale dei territori palestinesi.   

Dopo 53 anni di guerre, di attentati, di paure, i dirigenti israeliani dovrebbero rendersi conto che non potranno dominare con la forza e per l'eternità le popolazioni arabe e  soprattutto interrogarsi su quale futuro stanno apparecchiando per i loro figli e nipoti, per le nuove generazioni. Forse altri 50 anni, un altro secolo di odio e sangue?  Quando tempo bisognerà ancora attendere per vivere un giorno di  vera pace in Palestina?

Agostino Spataro


( torna su )

Numero 12
maggio 2001











Cookie Policy