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              PALERMO 
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      In questa 
        nuova rubrica proponiamo articoli e commenti comparsi su "la Repubblica 
        - Palermo" riguardanti le relazioni tra la Sicilia e i paesi dell'area 
        mediterranea e del mondo arabo. 
      ( 
        LA SICILIA NEL MEDITERRANEO) 
      
      
        -  
          
        
 
        -  
          
        
 
        -  
          
        
 
        -  
          
        
 
        -  
          
        
 
        - SEI 
          MILIARDI PER IL MARE DALLA SICILIA AL LIBANO
 
        - LA 
          VERGOGNA NEGLI ABISSI
 
          di Tahar 
          Ben Jelloun 
       
       
       
      Come 
        restare ancorati all'Europa 
       
      VINCENZO 
        VIOLA 
       Fino 
        al 2006 e quindi per tutta la durata della prossima legislatura, il flusso 
        di risorse finanziarie dell'Unione europea verso la Sicilia è già 
        assicurato da Agenda 2000. Guardando ora a dopo il 2006, bisogna tener 
        conto che a quella data l'Ue sarà stata ampliata a diversi nuovi 
        Stati membri, per lo più dell'est europeo e per lo più assai 
        più poveri della media dell'Europa dei Quindici. Ciò comporterà 
        l'abbassamento, in termini di valore assoluto, della soglia corrispondente 
        al 75 per cento del reddito medio comunitario pro capite e, di conseguenza, 
        il superamento di questa soglia da parte di tutte le regioni del Mezzogiorno 
        d'Italia, Sicilia compresa, con esclusione, a oggi, della sola Calabria. 
        Detto superamento potrebbe significare l'uscita dall'obbiettivo 1 e quindi 
        una enorme riduzione delle risorse finanziarie provenienti dall'Unione. 
        Quanto detto dimostra che trattasi di un problema né solo siciliano, 
        né solo nazionale, ma che investe tutte le attuali regioni obbiettivo 
        1 della Unione europea a quindici. 
        Un Paese assai avvertito su tali temi, quale è la Spagna, nella 
        conferenza intergovernativa di Nizza, si è cautelato riservandosi 
        il diritto di veto sulla politica di coesione del dopo 2006. Noi (governo 
        italiano, Regioni, parlamentari europei, membri italiani della commissione, 
        rappresentanza permanente presso il Consiglio dell'Ue) dobbiamo subito 
        fare un gioco di squadra, determinato e nel contempo duttile nel cercare 
        le alleanze, per far sì che si pervenga a una decisione che consenta 
        alle regioni del Sud d'Italia di non restare escluse, dopo il 2006, dalla 
        politica di coesione dell'Ue. La partita si gioca da ora sino agli inizi 
        del 2004, data in cui verrà presentato il terzo rapporto sulla 
        coesione che conterrà le scelte definitive. 
        Il dibattito è iniziato nel febbraio di quest'anno con la presentazione 
        da parte della commissione del secondo rapporto sulla coesione. Si legge 
        qui la consapevolezza del problema che sopra abbiamo posto e si offre 
        un ventaglio di soluzioni su cui avviare il ragionamento. Si può 
        dire che nel complesso ci si trova di fronte a proposte incoraggianti, 
        particolarmente per una regione insulare come la nostra. 
        Infatti, tra le priorità della futura politica di coesione vengono 
        citate le reti di trasporto e telematiche «per legare le zone periferiche 
        e insulari con il centro dell'Europa»; ma soprattutto, per la prima 
        volta, si pone in testa alla lista delle priorità quelle «aventi 
        una forte dimensione territoriale» e in tale contesto si distingue, 
        conformemente alla corretta versione dell'articolo 158 del trattato, tra 
        «regioni meno sviluppate e regioni che soffrono di gravi handicap 
        geografici e naturali» e, tra queste, si citano espressamente le 
        isole accanto alle regioni ultraperiferiche, alle regioni spopolate lapponi, 
        alle regioni di montagna. Sono in sostanza tutte quelle realtà 
        che hanno interesse a che si passi, quale criterio di ripartizione dei 
        fondi strutturali, da un criterio macroeconomico puro a uno mitigato da 
        un criterio geografico oggettivo: questo è il traguardo principale 
        da raggiungere. 
        Il rapporto presenta quattro nuove opzioni per le eleggibilità 
        all'obbiettivo 1 e per l'appoggio transitorio alle Regioni che ne escono, 
        il cosiddetto phaesing out. In tutte queste ipotesi l'essere regioni insulari 
        è sin da ora considerata come una condizione sufficiente a mitigare 
        la rigidità dei parametri di riferimento e a garantire comunque 
        alla Sicilia, dopo il 2006, un'ulteriore programmazione di risorse finanziarie 
        dall'Unione europea.  
        Se quindi è pressoché certo che Agenda 2000 non sarà, 
        come comunemente si dice, l'ultima occasione per la Sicilia, ciò 
        non deve indurre ad alcuna forma di disimpegno rispetto alla priorità 
        assoluta dell'oggi che resta quella di spendere bene e nei tempi previsti 
        le somme a noi assegnate. A mio avviso, due sono le condizioni principali 
        perché ciò avvenga: drastica semplificazione delle procedure 
        e concentrazione degli interventi riducendo fortemente un numero eccessivo 
        di misure previste. 
        L'autore è stato deputato al Parlamento europeo ed è consigliere 
        d'amministrazione del Banco di Sicilia. 
      ( 
        torna su ) 
       
      Una 
        casa vinicola siciliana apre 2 aziende in Tunisia 
      La 
        Calatrasi di San Cipirello fattura 24 miliardi all'anno 
       Un 
        pezzo di Sicilia in Tunisia per produrre vini di alta qualità: 
        la Calatrasi di San Cipirello ha inaugurato ufficialmente in Tunisia le 
        due aziende Domain Hannon e Domain Neferis per un totale di 1000 ettari, 
        di cui 400 a vigneto. Alla presenza delle autorità africane, del 
        presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro e dell'ambasciatore 
        italiano, è stato presentato il progetto che prevede un investimento 
        complessivo di nove miliardi in cinque anni e come obiettivo la produzione 
        di un milione di bottiglie di vini di alta gamma per il mercato tunisino 
        (un giro annuale di nove milioni di turisti). 
        La Calatrasi, 24 miliardi di fatturato raggiunto nel 2000 esportando i 
        propri vini in tutto il mondo, una joint venture con l'australiana Brl 
        Hardy, leader mondiale nella commercializzazione di vini, tre poli produttivi 
        fra Sicilia, Puglia e Tunisia per un totale di 1900 ettari di vigneto, 
        un team di professionalità internazionale, produce una ampia gamma 
        di etichette tra vini bianchi e rossi, quali Terre di Ginestra, Allora 
        e Selian, D'Istinto, Terrale e Accademia del Sole. In Tunisia Calatrasi 
        ha già terreni dal 1999, dopo esserseli aggiudicati a un'asta internazionale. 
        Oltre la metà dell'investimento complessivo verrà stanziato 
        dall'azienda di San Cipirello, socio di maggioranza della società 
        nata per gestire i terreni (la cui proprietà resta allo stato tunisino). 
        «Il sessanta per cento è nostro - afferma Maurizio Miccichè, 
        amministratore delegato della Calatrasi - la società avrà 
        in gestione il terreno per 25 anni nel corso dei quali noi porteremo, 
        oltre alle risorse finanziarie, il nostro know how». 
      ( 
        torna su ) 
      La 
        sicilia e gli otto grandi 
      AGOSTINO 
        SPATARO 
       Mentre a 
        Genova gli 8 "grandi" si apprestano, dal 20 al 22 luglio, a 
        discutere sui destini e sulle conseguenze dell'economia globale, in Sicilia 
        restiamo impantanati in una situazione di stallo, indecisi sul futuro 
        dell'Isola: se dovrà diventare il nord (evoluto) dell'Africa o 
        restare il sud (emarginato) dell'Europa. I temi in agenda del prossimo 
        vertice di Genova del G8 sono di grande importanza e riguardano la prospettiva 
        dell'area euromediterranea, nella quale la Sicilia è collocata. 
        Per come si stanno mettendo le cose, probabilmente, sapremo poco di quanto 
        verrà discusso e deciso, poiché questo vertice sembra divenuto 
        un evento di ordine pubblico internazionale; un affare gestito da polizie 
        e da servizi di controspionaggio di mezzo mondo.  
        Tuttavia, ciò che più interessa è cercare di evidenziare 
        quali rapporti intercorrono fra la realtà del G8 e le problematiche 
        specifiche dell'area mediterranea e quindi della Sicilia, il cui avvenire 
        sarà sempre più condizionato dall'evoluzione politica ed 
        economica di questa importante zona del pianeta. 
        Per prima cosa, è doveroso spiegare al lettore qual è il 
        peso dei paesi del G8 nell'economia mondializzata, poiché da questo 
        nasce la loro pretesa di "ordinare" il mondo. 
        Nel 1998, gli 8 Paesi (Usa, Canada, Giappone, Germania, Francia, Italia, 
        Gran Bretagna e Russia), con il 13,8 per cento della popolazione mondiale, 
        disponevano del 48 per cento della ricchezza (pil) prodotta nel mondo, 
        detenevano oltre il 60 per cento del commercio internazionale e così 
        dicasi per i consumi d'energia (e, di converso, per le emissioni inquinanti), 
        per la qualità dei servizi, per le speranze di vita, e così 
        via. 
       
        Forti di questi 
        numeri, i paesi del G8 invece di coinvolgere, in una sede universalmente 
        riconosciuta qual è l'Onu, gli altri 201 Stati assai penalizzati 
        dalla globalizzazione, si arrogano il diritto di decidere, da soli, anche 
        le sorti degli altri popoli, piegando alle loro ragioni il ruolo d'istituzioni 
        fondamentali quali il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, 
        il Wto. Per altro, questi 8 Signori non decidono un bel nulla, poiché 
        per loro hanno già deciso le grandi consorterie della finanza internazionale. 
        Il resto del mondo, ovvero 201 Paesi con una popolazione complessiva di 
        5 miliardi e 215 milioni d'abitanti, deve accontentarsi, senza protestare, 
        delle rimanenze: ossia del 52 per cento del pil e del 40 circa del commercio 
        internazionale. Ma c'è uno squilibrio nello squilibrio ancor più 
        grave fra quello già evidenziato: infatti, se estrapoliamo da queste 
        cifre i dati relativi agli altri paesi sviluppati dell'Ocde e non facenti 
        parte del G8, si riduce drasticamente la quota spettante ai paesi in via 
        di sviluppo (Pvs) e ad altri ancora più poveri. Sui Pvs, inoltre, 
        grava un debito estero divenuto insopportabile per quelle economie che, 
        nel 1999, ammontava a 2.554 miliardi di dollari. Si tratta di paesi poverissimi, 
        dove il reddito procapite è inferiore a 1 dollaro al giorno, afflitti 
        da malattie endemiche e devastanti, siccità, malnutrizione, in 
        gran parte governati da generali ingordi, messi lì a garantire 
        il pagamento d'esosi interessi e l'acquisto di costosissimi sistemi d'arma. 
        Non a caso, nel corso degli ultimi 30 anni, il debito di questi paesi 
        è cresciuto a velocità strabiliante, moltiplicandosi per 
        42: dai 61 miliardi di dollari del 1970 ai 2554 del 1999. 
        L'area mediterranea (i 21 Paesi rivieraschi, esclusi quelli del Mar Nero) 
        costituisce un insieme eterogeneo, caratterizzato da forti divari economici 
        e di reddito che possiamo cogliere suddividendo questi paesi in quattro 
        fasce secondo il reddito procapite annuo (considerato a parità 
        di potere d'acquisto) che resta uno dei principali elementi indicativi 
        di una determinata condizione sociale ed economica: 1) dai 15 mila ai 
        22 mila dollari procapite è composta: da due paesi facenti parte 
        del G8, Italia (20.300) e Francia (22.000) e da Israele (18.150) e Spagna 
        (15.930); 2) dai 10 mila ai 15 mila dollari, da: Cipro (14.675), Malta 
        (13.180), Grecia (12.540), Libia (11.832), Slovenia (11.800). Il reddito 
        procapite della Sicilia è di circa 11.000 dollari. 3) dai 5 mila 
        ai 10 mila dollari: Turchia (6.350), Libano (5.940) e Tunisia (5.300); 
        4) al di sotto dei 5000 dollari: Croazia (4.780), Algeria (4.460), Giordania 
        (3.450), Marocco (3.310), Siria (3.250), Egitto (3.050), Serbia/Montenegro 
        (2.280), Albania (2.120), Territori Palestinesi (1.465). 
        Rispetto al mondo, l'insieme dei paesi rivieraschi del Mediterraneo, con 
        il 7 per cento della popolazione, rappresenta l'8,2 per cento del pil 
        e il 17 per cento dell'interscambio commerciale. Naturalmente, all'interno 
        di questo aggregato il peso di Francia e Italia è davvero sproporzionato 
        e segnala un divario fortemente sperequativo con il resto dei paesi, soprattutto 
        quelli delle rive sud ed est del Mediterraneo. Infatti, se togliamo dal 
        pil globale mediterraneo (8,2 per cento del pilmondo) quello relativo 
        a Francia e Italia (insieme 6,45 per cento), gli altri 19 paesi si dovranno 
        spartire un ben gramo 1,75 per cento del pil mondiale. Così dicasi 
        per il commercio, il turismo, i consumi, le infrastrutture, e così 
        via. 
        Per avere un'idea di come stanno le cose nel Mediterraneo e di come si 
        colloca l'Isola in tale contesto proponiamo un altro, significativo confronto: 
        la Sicilia, con poco più di 5 milioni d'abitanti e pur trovandosi 
        al penultimo posto della graduatoria italiana per il reddito pro capite 
        (all'ultimo c'è la Calabria), dispone di un pil globale di circa 
        56,08 miliardi di dollari, ovvero una cifra superiore a quella risultante 
        dalla somma dei pil di ben 5 Stati rivieraschi con una popolazione complessiva 
        di 22,8 milioni di abitanti: Malta, Albania, Serbia/Montenegro, Giordania, 
        Palestina (55,3 miliardi di dollari). 
        Nel biennio 199899, il valore delle importazioni siciliane è cresciuto 
        di 2.284 miliardi di lire (+17,5 per cento), mentre quello delle esportazioni 
        è calato di 323 mld (4,7); il disavanzo dell'interscambio siciliano, 
        nel 1999, è stato di 8.736 miliardi di lire, ovvero una cifra di 
        molto superiore al valore globale delle esportazioni (6.583 miliardi). 
        Non a caso il grado d'internazionalizzazione dell'economia siciliana è 
        stato nel 1998 del 16,7 per cento, uno dei più bassi in Italia, 
        mentre il saldo migratorio si è innalzato a 17,5 per cento; com'è 
        noto, queste due tendenze marciano di pari passo nell'economia globalizzata. 
        Questi numeri (abbastanza indicativi e sommari) dovrebbero far riflettere 
        non soltanto sui problemi interni della gestione politicoamministrativa 
        della Regione, ma soprattutto sulle politiche e sugli strumenti per una 
        spiccata proiezione internazionale dell'economia siciliana nel contesto 
        euromediterraneo che nel 2010 evolverà in una zona di libero scambio, 
        nel quadro del processo di mondializzazione dell'economia che, inevitabilmente, 
        andrà avanti nei prossimi decenni. 
         
      Agostino 
        Spataro 
      ( 
        torna su ) 
       
      L'arte 
        islamica si studia dal vivo
       Al via 
        ad Architettura un corso postlaurea sugli itinerari arabi in Sicilia tra 
        cultura e turismo 
       
         
          MARIA TIZIANA GULOTTA 
          
        Ha 
        preso il via in questi giorni il corso di specializzazione postlaurea 
        su "Itinerari dell'arte islamica in Sicilia", organizzato dal 
        dipartimento di Storia e progetto nell'architettura dell'Università 
        di Palermo. È un'iniziativa che il «Museo senza frontiere», 
        un'organizzazione internazionale non governativa, ha commissionato al 
        dipartimento di Storia e progetto con il finanziamento del Fondo sociale 
        europeo e l'approvazione della Regione, con l'obiettivo di far interagire 
        i beni culturali e un turismo di qualità. 
        Questo itinerario scientifico di arte islamica sarà immesso in 
        una rete internazionale, di cui fanno già parte undici Paesi del 
        Mediterraneo: dalla Spagna alla Turchia, dal Marocco a Israele. E così 
        la Sicilia è entrata a far parte di questo circuito, dal momento 
        che anche nell'Isola la koinè islamica è molto forte. 
        Il corso, che durerà complessivamente 480 ore, è diretto 
        da Carla Quartarone, docente di Pianificazione urbana ad Architettura 
        ed è organizzato in differenti moduli, secondo le diverse specializzazioni. 
        Prevede la formazione di venti mediatori del patrimonio culturale siciliano, 
        che avranno il compito di conoscere le risorse e trasmetterle agli utenti 
        stranieri, venti tourist provider e venti marketing manager, che dovranno 
        interloquire con gli enti pubblici e privati in modo da rendere fruibili 
        gli itinerari. 
        I dieci percorsi intorno alla Sicilia, elaborati da un comitato scientifico, 
        daranno l'opportunità al visitatore di conoscere monumenti espressione 
        di tre secoli e mezzo di storia, dall'età islamica a quella normanna 
        e chiaramontiana. Ogni percorso è come una sala da vistare. Il 
        primo itinerario partirà dal museo islamico del castello della 
        Zisa, per toccare Palermo e il suo territorio, le province di Agrigento 
        e Trapani, Mazara del Vallo, fino a raggiungere le Madonie e i Nebrodi. 
        Questi itinerarimostra verranno pubblicati in un libro d'arte che farà 
        parte della collana dal titolo "L'arte islamica nel Mediterraneo", 
        edito dalla casa editrice Electa, in modo da coinvolgere il visitatore 
        nella scelta degli itinerari scientifici. Inoltre ogni monumento sarà 
        contraddistinto da una segnaletica consistente in un totem o una targa 
        che renda più agevole il percorso. 
       ( 
        torna su ) 
       
      La 
        vergogna di Portopalo
       AGOSTINO 
        SPATARO 
        Sono 
        stati accertati i resti (meglio dire i brandelli) della più grave 
        sciagura marittima del Mediterraneo, nel tratto di mare fra Sicilia e 
        Malta. In quella maledetta notte di Santo Stefano del 1996, 283 persone, 
        imprigionate in una carcassa maltese, sono colate a picco divenendo pasto 
        per cernie, orate e gamberoni che, a loro volta, diventeranno cibo prelibato 
        sulle nostre tavole imbandite per le feste comandate. Buon appetito!  
        A parte l'alto numero delle vittime, questa tragedia è un evento 
        davvero sconvolgente poiché ha rivelato un comportamento asociale 
        e inquietante che non dovrebbe appartenere all'indole dell'uomo. In quasi 
        cinque anni, dal mare o impigliate nelle reti sono emerse le terrificanti 
        prove della sciagura: cadaveri dilaniati, brandelli di corpi umani e d'indumenti. 
        Eppure nessuno ha parlato, indagato, denunciato le evidenti omissioni 
        (perfino un cranio umano verrà trovato su una bancarella di Portopalo). 
        Nessuno, proprio nessuno. Nemmeno fra le cosiddette autorità civili, 
        religiose e militari che, in vario modo, ne avevano avuto sentore. Nessuno 
        fra la gente di Portopalo, nel ragusano (ricca provincia siciliana, per 
        altro quasi immune da fenomeni incivili di criminalità), che vedeva 
        e sapeva dell'immane tragedia e regolarmente taceva. In Sicilia, generalmente, 
        la gente non parla per paura della rappresaglia, per "omertà", 
        come impropriamente viene chiamata la paura dei siciliani. In questo caso 
        l'omertà non c'entra nulla, non c'era motivo di temere la rappresaglia 
        mafiosa. Ma se i pescatori e la gente hanno taciuto soltanto per non avere 
        noie, per non subire il fermo di qualche ora o giorno della loro attività, 
        non si capisce davvero perché le autorità non abbiano indagato. 
        L'opinione pubblica internazionale si farà un'idea non molto accattivante 
        dell'Italia e della Sicilia in particolare. 
        L'indignazione non guasta, ma quello che più serve in questa fase 
        è interrogarsi sul perché si sia potuto giungere a tanto 
        cinismo in questa nostra Isola, nei millenni celebrata per il suo spirito 
        d'ospitalità, di compassione, di solidarietà. Virtù 
        sempre più rare in verità, ma che nell'Isola dovrebbero 
        essere maggiormente esercitate nei confronti degli immigrati visto che 
        esiste "un'altra Sicilia" emigrata all'estero per sfuggire alla 
        miseria, alle angherie feudali dei latifondisti e dei loro campieri mafiosi: 
        esattamente come speravano di fare quei 283 giovani indiani, pachistani 
        e cingalesi che fuggivano dalla povertà e dalla guerra eterna. 
         
        Ovviamente, una riflessione, anche severa, dovrebbe coinvolgere le altre 
        popolazioni e governi del Mediterraneo (Malta, Grecia, Turchia, Albania, 
        Egitto, Libano, Tunisia, Marocco) che questo turpe mercimonio di uomini 
        consentono, traendone i più lucrosi vantaggi. 
        Ma è solo indifferenza, cinismo o c'è dell'altro? Probabilmente, 
        il delirio del profitto, la corsa sfrenata ed egoistica al facile guadagno 
        hanno preso il sopravvento sui valori tradizionali della civiltà 
        contadina, saggia e pietosa, che fino a pochi decenni addietro distingueva 
        il sentimento dei siciliani. Siamo oltre il cinismo e la folle corsa continua: 
        verso il razzismo e la xenofobia, verso l'intolleranza per tutto quello 
        che non ci conviene economicamente.  
        Si disconosce il Prossimo, l'immigrato non è più persona 
        appartenente alla stessa razza umana, ma è il "niru", 
        "il turco", "il marocchino", "il vu' cumprà"; 
        abbiamo inventato una serie di epiteti spregiativi quasi volessimo spodestare 
        quegli uomini e quelle donne della loro natura umana, per ridurli a uno 
        stato di moderna schiavitù, o farli sentire tali, senza i diritti 
        di quella antica che almeno prevedeva la possibilità di divenire 
        liberti. 
      
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      Sei 
        miliardi per il mare dalla Sicilia al Libano
       Sì 
        al progetto della fondazione Palazzo Intelligente
        Un 
        progetto di recupero e valorizzazione di sedici borghi marinari di varie 
        località del bacino del Mediterraneo, che diventa strumento di 
        sviluppo sovranazionale. È il progetto "Tech Net" della 
        fondazione Palazzo Intelligente di Guido Agnello, che il 30 giugno è 
        stato approvato dall'Unione europea. Il progetto coinvolge due località 
        di Libano, Egitto, Tunisia, Marocco e Grecia e i centri siciliani di Lipari, 
        Aci Castello, Scoglitti, Marina di Ragusa e Gela. Un'iniziativa che ha 
        subito incontrato il favore di molti organismi internazionali, raccogliendo 
        il patrocinio dell'Onu e l'adesione della fondazione libanese Hariri, 
        della Ato (Arabic Town Organization) che riunisce 470 città di 
        22 Paesi arabi e della Abc (Arabic Bureau for City Development). 
        A Saida, l'antica Sidone in Libano, Agnello e i suoi collaboratori hanno 
        incontrato i rappresentanti di queste organizzazioni e Staffan De Mistura, 
        rappresentante della delegazione Onu in Italia. Il progetto che coinvolge 
        le sedici località, con uno stanziamento di tre milioni di euro 
        (circa sei miliardi di lire), sarà un'iniziativa pilota che alla 
        fine coinvolgerà tutte le città della Ato e quelle della 
        Sicilia. In questo senso a Saida la fondazione Palazzo Intelligente ha 
        firmato un protocollo di «alleanza e solidarietà» con 
        la presidentessa della fondazione Hariri, Bahia Hariri, ministro per l'Istruzione 
        del Libano, e con Wadad Al Suwayeh, presidente di Ato e Abc. «Con 
        questo accordo - spiega Agnello - il nostro progetto viene riconosciuto 
        come strumento di sviluppo culturale ed economico per tutta l'area del 
        Mediterraneo. Un modo diverso per rilanciare il turismo compatibile e 
        fare pace con il mare soprattutto in Sicilia, dove sembriamo avere litigato 
        con la nostra più grande risorsa». 
        Anche a Saida arriverà la campagna per i diritti umani che in Sicilia 
        ha illuminato alcuni monumenti con le parole dei poeti. Il suggestivo 
        «Chateaux sur la mer» della città libanese sarà 
        illuminato da Marco Nereo Rotelli e diventerà la sede della campagna 
        contro le mine anti uomo che l'Onu sta per varare. Ogni volta che saranno 
        bonificate dagli artificieri mille mine, il castello verrà illuminato 
        con i versi di poeti arabi. «Siamo soddisfatti - aggiunge Agnello 
        - del consenso estero per il nostro lavoro. In Libano ci ha soprattutto 
        sbalordito il grande entusiasmo dei ragazzi della fondazione Hariri. Giovani 
        cresciuti fra le bombe e la disperazione, ma che hanno una grande fiducia 
        nel futuro. Segno che il nostro percorso ha un senso». 
      
 g. 
        a.
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      La 
        vergogna negli abissi
       TAHAR 
        BEN JELLOUN
       Se il mare 
        fosse un libro, alcune pagine sarebbero bianche, cancellate dalla vergogna. 
        Non vi si leggerebbe nessuna storia, ma si intuirebbe qualche tragedia 
        come quella avvenuta la notte del 26 dicembre 1996. Una notte di preghiera 
        e di pace, una notte di festa. Ma a volte il destino è infedele 
        alla vita, e allora si parla di sviste, di errori. 
       A meno di 
        essere fatalisti, ci si può rifiutare di pensare che il giovane 
        cingalese (di etnia tamil) Anpalagan Ganeshu, nato il 12 aprile 1979, 
        e suo fratello Arulalagan fossero nati per essere divorati dai pesci delle 
        coste italiane. La stessa sorte ebbero altre 281 persone, clandestini 
        dello Sri Lanka, dell'India e del Pakistan. 
      La vergogna 
        bianca viene da quello che l'uomo è capace di fare all'uomo.  
      Tutte le 
        storie di clandestini, che provengano dall'Asia o dall'Africa, sono storie 
        di imbrogli, truffe e schiavitù. Si è saputo che il costo 
        del viaggio era di 5000 dollari a persona. Il trafficante - o i trafficanti 
        - deve aver intascato quasi un milione e mezzo di dollari. Cinquemila 
        dollari per morire, per andare a offrire il proprio corpo ai pesci affamati, 
        per lasciarsi decomporre un pezzo dopo l'altro. Questa volta il mare della 
        vergogna ha parlato: ha restituito alcuni corpi, certi interi e in condizioni 
        spaventose, altri pezzo dopo pezzo. E poi ha restituito anche una carta 
        d'identità plastificata. Un corpo del reato per mettere fine ai 
        dinieghi, al rifiuto di vedere e di credere che il naufragio avesse davvero 
        avuto luogo, per provare che non si trattava di un fantasma o di una diceria 
        natalizia 
      Che cosa 
        rimane di un volto divorato dai pesci? Carne avvizzita dal sale dell'acqua, 
        pelle ridotta a una sottile membrana? Che cosa rimane di un corpo che 
        non è più un corpo, di quello che è stato uomo, una 
        memoria, desideri e speranze? Il mare non dice tutto. È spietato 
        e ingoia tutto. 
      A cosa assomiglia 
        un corpo che ha passato più di una settimana in fondo al mare? 
        Alla cattiva coscienza? Alla maschera dell'indifferenza? A una descrizione 
        di Boccaccio o a un dipinto di Bacon che illustra la miseria e la crudeltà 
        umana? 
        Un corpo che è stato a lungo in mare, straziato dall'acqua e dagli 
        squali, un corpo che ha nutrito pesci che poi saranno nei nostri piatti, 
        non assomiglia più a niente, ma ci ricorda che l'uomo è 
        più perverso, più brutale dello squalo.  
        "È così che vivono gli uomini?" si chiedeva Louis 
        Aragon durante gli anni della resistenza contro l'occupazione tedesca 
        in Francia. 
      Ma che cosa 
        sono diventati, gli uomini, per vivere della morte dei loro simili? Non 
        è una novità, ma stupisce sempre vedere che i rapaci non 
        si fermano davanti a nulla. 
      Si è 
        saputo che Anpalagan e suo fratello erano attesi in terra italiana da 
        uno zio, il quale non osa dire a sua sorella, la madre dei due giovani, 
        quello che è successo. Per la madre hanno realizzato il loro sogno: 
        andare in Europa per lavorare e vivere in pace, dopo aver sfuggito la 
        guerra e la carestia. 
        Come dice lo zio, "Anpalagan è un ragazzo vivace e affettuoso, 
        dotato di una grande capacità di imparare e di lavorare". 
        Per la madre, i figli sono dall'altra parte del mare e un giorno torneranno 
        a trovarla, le porteranno dei doni e le daranno una parte dei loro guadagni 
        come usa dalle loro parti. Lei aspetta, sorride pensando a loro e sa che 
        sono bravi ragazzi. Ovviamente non c'è mai stato nessun naufragio. 
         
      Che naufragio? 
        Le imbarcazioni non naufragano mai la sera di Natale, lo sanno tutti. 
        Dio non lo permette, né il Dio dei Cristiani né lo Spirito 
        che guida i Cingalesi. 
        Mentre quella madre aspetta i suoi figli, altre madri vendono tutto quello 
        che trovano perché i loro figli possano emigrare. Madri del Marocco, 
        del Senegal, del Mali, del Pakistan, dello Sri Lanka, di tutti i paesi 
        del mondo in cui la miseria ha fatto degli strappi nelle coscienze. 
      Ci si accanisce 
        contro i clandestini, quelli che riescono a salvare la pelle. Ma che cosa 
        si fa contro i trafficanti, i mafiosi, i lupi rabbiosi, quelli che restano 
        nell'ombra, quelli che rimangono sulla riva quando la piccola barca sovraffollata 
        prende il largo in una notte buia e naviga verso la morte, o meglio verso 
        coste sorvegliate dai gendarmi e dai cani?  
        Il libro del mare è il registro di un cimitero marino che non ingoia 
        più i pirati, come succedeva una volta, ma le loro vittime.  
      Quattro anni 
        dopo, questa tragedia è stata resa pubblica da questo giornale. 
        Dal fantasma si passa alla realtà e ai fatti accertati.  
      Che fare, 
        dunque, perché questi fatti non si ripetano più? Tocca all'Europa 
        dal volto umano, e non all'Europa dei tecnocrati cinici e affaristi, avviare 
        al più presto una nuova politica di cooperazione e di immigrazione 
        legale da definire con quei paesi del Sud e dell'Est che bussano alle 
        sue porte e che spesso ricevono soltanto risposte di morte. (15 giugno 
        2001) 
      (Traduzione 
        di Elda Volterrani) 
       
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       | 
     
         
      Numero 
        13 
        luglio 2001 
         
      
      
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