TERRORISMO E
CORSA AL RIARMO
di Agostino
Spataro
Esiste
una connessione fra escalation del terrorismo e ripresa della corsa
al riarmo e del commercio internazionale d'armamenti? In base alle scarne
informazioni disponibili è difficile pronunciarsi, tuttavia fanno
riflettere taluni dati e tendenze, inerenti alla produzione e al commercio
di sistemi d'arma, registratisi nel triennio 1998-2001, in contemporanea
con la catena di stragi culminate nei criminali attentati alle Torri
gemelle di New York, sotto le cui macerie perirono circa 3.000 persone
innocenti. L'11 settembre, dunque, è una data storica poiché
ha caratterizzato il 2001 come un anno cruciale nel quale, oltre all'avvio
del nuovo secolo e del nuovo millennio, è stata avviata una preoccupante
svolta nel sistema delle relazioni internazionali, all'insegna della
progressiva militarizzazione.
In quel giorno funesto sull'America e sul mondo si è abbattuta
una sorta di "tempesta profetica", da più fonti preannunciata
e da tutti, irresponsabilmente, sottovalutata, nella quale si è
materializzato il volto dell'atteso (nuovo) nemico, rappresentante di
quell' ineffabile "forza del male" che eternamente insidia
la cosiddetta "civiltà occidentale". Nella nuova concezione
della minaccia, il terrorismo è così passato da bieco
strumento di lotte politiche, etniche e/o religiose locali o regionali
a fenomeno di dimensione planetaria, la cui soluzione presuppone uno
scontro bellico di respiro mondiale. L'Amministrazione Usa (e la Nato)
hanno prontamente elaborato una nuova, ambigua dottrina militare che,
facendo leva su un allarmismo non sempre giustificato, mira a fare di
tutta l'erba un fascio, senza distinguere adeguatamente fra terrorismo
assassino e movimenti sociali e politici che si oppongono, al sud come
al nord, all'avanzata (disastrosa) del processo di globalizzazione capitalistica
dell'economia e di livellamento delle culture e delle diversità
che sono la più grande ricchezza dell'umanità.
Sull'onda dell'allarmismo militante dei "falchi" di Washington,
il ministro della difesa italiano, Antonio Martino, forse per non essere
da meno del suo collega e mentore americano, ha annunciato in televisione
un'imminente "apocalisse batteriologica" contro l'Italia e
l'Europa da parte del "terrorismo", suscitando panico nell'opinione
pubblica e sdegno e secchissime smentite anche all'interno della maggioranza
di governo. Evidentemente, nessuno ha spiegato al ministro Martino che
il suo dovere istituzionale non è quello di abbandonarsi ad irresponsabili
dichiarazioni, ma di usare i mezzi e le abbondanti risorse a sua disposizione
per andare a snidare i terroristi (con nomi e cognomi e soprattutto
con prove certe e robuste), arrestarli e consegnarli alla giustizia,
senza dimenticarsi, prima di andare in TV, d'informare gli organi preposti
del Parlamento e del Governo.
Di questo passo, tutto sarà terrorismo e il mondo vivrà
in una condizione di paura e di apprensioni continue, in una sorta di
coprifuoco permanente che comprimerà i fondamentali diritti civili
e potrà perfino criminalizzare le legittime aspirazioni al riequilibrio
provenienti da varie realtà e movimenti del Sud del mondo.
Come
si dovrà tener conto che questo clima allarmistico, modificando
le abitudini della gente anche sotto il profilo dei consumi, sta deprimendo
le potenzialità del mercato e quindi vanificando tutti gli sforzi
per una consistente ripresa dell'economia e del commercio mondiali;
così come pesanti saranno le conseguenze sul turismo internazionale.
Tutto ciò per giustificare la guerra al nemico di turno (oggi
il terrorismo di matrice islamica, domani chissà) da parte di
potenti coalizioni militari internazionali, organizzate al di fuori
dell'Onu e composte prevalentemente dai principali Paesi produttori
ed esportatori di sistemi d'arma.
Il terrorismo è un problema gravissimo, tuttavia non si può
pensare di risolverlo ingaggiando una specie di guerra mondiale che
può rivelarsi controproducente, aggravando l'attuale contesto
conflittuale. Come teme il rapporto del SIPRI (Istituto internazionale
di ricerche sulla pace di Stoccolma), recentemente reso noto nell'indifferenza
quasi generale dei mass media nostrani, secondo il quale "l'impiego
della forza militare per combattere i terroristi fa correre il rischio
di un'intensificazione dei conflitti in corso, poiché i governi
utilizzano la retorica del contro-terrorismo per forzare i limiti imposti
dagli accordi diplomatici destinati ad evitare l'uso della forza".
Al contrario, per condurre una lotta efficace al terrorismo bisogna
evitare le generalizzazioni, gli irresponsabili allarmismi e la retorica
antiterroristica, cercando d'identificare inequivocabilmente le organizzazioni
terroristiche e i loro finanziatori ed ispiratori e quindi combatterle
(sul serio e sempre), di là di ogni "convenienza" politica,
senza guardare al colore politico e/o alla confessione religiosa. La
lunga guerra in Afghanistan avrebbe dovuto insegnare (in primo luogo
agli Usa) che non può esistere un terrorismo "amico"
o "utile" da usare in certe situazioni di crisi: ogni azione
armata contro i civili (condotta da gruppi organizzati o da singoli
kamikaze disperati, ma anche dai tanks e dagli aerei d' eserciti invasori)
è da condannare come immorale e non può essere associata
ad una giusta causa. Anche la guerra (che è il massimo dell'immoralità)
deve avere una sua "etica", nel senso che, se proprio la si
vuol fare, deve essere combattuta dai militari; cosi come quando si
tratta di combattere contro un esercito invasore non si mandano i ragazzini
armati di pietre, ma l'armata di liberazione nazionale.
Detto questo, torniamo al rapporto del SIPRI nel quale sono evidenziati
interessanti elementi che dimostrano come sia in atto, dopo oltre un
decennio (1987-98) di sostanziale stasi, una nuova corsa al riarmo su
scala mondiale, giustificata con le esigenze della lotta al terrorismo
e caratterizzata da un inquietante incremento delle spese militari e
del commercio internazionale delle armi che vedono i Paesi del G8 ai
primi posti delle rispettive graduatorie mondiali.
Nel 2001, la spesa militare globale è aumentata del 2,0%, giungendo
a 839 miliardi di dollari (mld Usd), ovvero ad una somma equivalente
al 2,6% del PIL mondiale; corrispondente a 137 usd per abitante. Il
rapporto avverte che queste cifre "dovranno essere riviste al rialzo"
a causa degli stanziamenti decisi, dopo l'11 settembre, da diversi Paesi,
primo fra tutti gli Usa che hanno varato misure "antiterroristiche"
per 40 mld Usd.
Riferito al triennio 1998-2001, questo dato diventa davvero allarmante
poiché l'aumento raggiunge il 7% , mentre per i prossimi anni
il SIPRI prevede una forte accelerazione della crescita della spesa
militare in tutte le regioni del mondo, ad eccezione dell'Oceania.
Fra i 15 Paesi a più elevata spesa militare figurano quelli del
G8 che insieme totalizzano il 64% della spesa mondiale: Stati Uniti
(281,4 mld Usd, pari al 36% della spesa mondiale); Russia (43,9 mld
Usd; 6% ); Francia (40 mld Usd, 5%); Giappone (38,5 mld Usd, 5%); Gran
Bretagna (37 mld Usd, 5%), Germania (32,4 mld Usd, 4%); Italia (24,7
mld Usd, 3%).
Seguono alcuni Paesi poveri del terzo mondo fra cui: Cina, India, Turchia,
Brasile, ecc., mentre l'Arabia Saudita si colloca all'8° posto con
una spesa di 26,6 mld Usd, al 13° posto figura Israele con una spesa
di 9,1 mld di Usd.
Nella lista dei primi 10 Paesi esportatori al primo posto si colloca
la Russia che, nel 2001, ha superato il tradizionale primato degli Usa
i quali, rispetto al 1998, accusano una perdita secca del 65% del valore
delle loro esportazioni di sistemi d'arma e di brevetti militari; seguono
(nell'ordine): Gran Bretagna, Germania, Ucraina, Paesi Bassi, Italia,
Cina e Belarus.
I Paesi sopra elencati sono grandi esportatori, ma parchi importatori
d'armamenti, infatti nessuno di loro, tranne la Cina, figura fra i primi
10 Paesi importatori lasciando questo triste primato a una serie di
Paesi poveri e poverissimi, interessati da fenomeni terrostici e/o impegnati
in insanabili conflitti etnico- territoriali, quali (nell'ordine): Taiwan
che nel quadriennio 1997-2001 ha importato armi per 11,3 mld Usd; Cina
(7,1 mld Usd); Arabia Saudita (6,7 mld usd); Turchia (5,0 mld Usd);
India (4,7 mld Usd); Grecia (4,4 mld Usd); Corea del Sud ( 3,9 mld Usd);
Egitto ( 3,2 mld Usd); Giappone ( 3,2 mld Usd); Pakistan (2,9 mld usd).
Se un giorno a questi ed altri Paesi dovesse venire a mancare "
il nemico" non saprebbero come giustificare una spesa così
esorbitante. Come dire: chi trova un nemico trova un tesoro.
Agostino
Spataro