( D’Alema per la pace in Medioriente )


UNA PATRIA AI PALESTINESI
UNO STATO SICURO AGLI ISRAELIANI *
di Massimo D'Alema

Il ”Patto per la Pace”, firmato a Ginevra, primo, vero accordo fra israeliani e palestinesi; Gerusalemme, capitale di due Stati; perché la “road map” non ha cambiato nulla; la sinistra italiana ha una tradizione di dialogo con Israele; l’Europa incontra Arafat, l’Italia no; l’interpretazione di Sharon della “road map” non fa avanzare il processo di pace; palestinesi e israeliani: due popoli vittime dell’aggressione militare e del terrorismo; lo scandaloso avallo del governo italiano alla costruzione del muro israeliano; a rischio la lunga e condivisa politica italiana di equivicinanza; la vita umana è sacra; combattere il terrorismo palestinese e fermare le scelte irresponsabili della leadership israeliana; questione mediorientale: un terreno di comune responsabilità per le forze politiche italiane.

Il ”Patto per la Pace”, firmato a Ginevra, primo, vero accordo fra israeliani e palestinesi

Signor Presidente, ringrazio il sottosegretario Margherita Boniver per la sua risposta, nella quale ho trovato molti spunti apprezzabili; tuttavia, mi permetterò di allargare un po' il campo delle considerazioni, perché non credo che ciò che ci ha riferito Margherita Boniver corrisponda effettivamente alla condotta che il Governo italiano ha tenuto intorno alla delicata, complessa e drammatica questione del conflitto israelo-palestinese, e penso sia urgente compiere atti per recuperare una posizione italiana equilibrata ed in grado di incidere effettivamente per incoraggiare un difficile processo di pace.
Partirò, in queste mie considerazioni, dal documento di Ginevra. Il documento di Ginevra è, a mio giudizio, un grande evento.
Certamente, non è un accordo di pace condiviso tra le parti, ma è la prima volta che autorevoli esponenti israeliani e palestinesi scrivono un accordo di pace.
Se questo accordo di pace venisse accolto dalla comunità internazionale come la base per una soluzione, se la comunità internazionale esercitasse una inevitabile pressione sulle parti per arrivare a convincerle (non vorrei dire ad imporre, anche se vi sono casi in cui la pace è stata imposta con la forza della comunità internazionale) ad addivenire a quella soluzione, noi avremmo, per la prima volta, dopo decenni di un tragico conflitto, una possibile via d'uscita.
Perché il documento di Ginevra rappresenta una grande speranza? Perché, appunto, per la prima volta, si indicano soluzioni realistiche, elaborate attraverso l'apporto di specialisti. Non siamo di fronte ad un appello della società civile, siamo di fronte ad un accordo di pace elaborato in tre anni di lavoro, sotto la guida di personalità che hanno avuto un ruolo di primo piano in tutti i negoziati che si sono svolti tra lo stato di Israele e l'Autorità palestinese.
Yossi Beilin è stato l'uomo di fiducia di Rabin nel negoziato di Oslo e Rabbo è senza dubbio una delle personalità più aperte e più competenti nel campo palestinese.
Questo accordo indica soluzioni per tutte le questioni controverse ed aperte: per la questione degli insediamenti israeliani, anche attraverso una realistico aggiustamento dei confini, che consenta di incorporare nello Stato di Israele alcuni dei maggiori insediamenti sorti lungo il confine alla di là della green line, restituendo ai palestinesi altri territori a ridosso di Gaza o nella parte fra Gaza e la Cisgiordania; quel concetto di scambio di territori che fu già al centro dell'attenzione nell'ultima fase dell'amministrazione di Bill Clinton, quando si avviò un tentativo di grandissimo interesse di fare un passo serio verso la pace (tentativo che fallì per le rigidità delle due parti ed anche, in quel caso, per la responsabilità personale di Yasser Arafat).

Gerusalemme, capitale di due Stati

Il documento di Ginevra affronta poi la questione di Gerusalemme, che è un nodo di grandissimo rilievo, prospettando una ragionevole spartizione della città, capitale di due Stati e, nello stesso tempo, proponendo una responsabilità internazionale sui luoghi santi che corrisponde ad una garanzia per tutte le confessioni religiose e, come si sa, ad una preoccupazione - a mio giudizio motivata - della Chiesa cattolica.
Infine, il documento contiene la rinuncia ad un diritto al ritorno dei profughi ed una soluzione ragionevole, equa - sappiamo quanto sofferta per i palestinesi - di questa drammatica questione. Una soluzione tale da non compromettere l'esistenza dello Stato ebraico. È un compromesso vero: comporta delle rinunce da una parte e dall'altra.
Coloro che hanno avuto il coraggio di scrivere questo accordo sono persone che hanno davvero scelto la via della pace e noi sappiamo come, da una parte e dall'altra, essi siano sotto l'attacco delle frange più estremistiche.
Certamente, ai gruppi estremisti palestinesi non appare accettabile la rinuncia al diritto al ritorno, così come in Israele, alle parti estreme - ma, purtroppo, anche al Governo di questo paese - non appare accettabile la rinuncia alla sovranità israeliana sull'intera Gerusalemme, né è dato capire che cosa oggi sia accettabile per il Governo Sharon, dato che il riferimento più volte fatto dal primo ministro di Israele a dolorose concessioni che egli proietta in un futuro non ben determinato è appunto un riferimento vago, rispetto al quale non è dato capire quali soluzioni concrete esistano.
Tutti noi sappiamo come il partito di Sharon abbia prospettato soluzioni che, tuttavia, non hanno mai compreso il diritto all'esistenza di uno Stato palestinese. Quindi, dietro l'attuale primo ministro israeliano non vi è alcuna proposta ed alcuna elaborazione che comprenda il rispetto di una delle condizioni considerate fondamentali dalla comunità internazionale per una pace giusta: il diritto ad esistere di due Stati sovrani l'uno accanto all'altro.

Perché la “road map” non ha cambiato nulla

Come lei ha detto giustamente, tale documento non è contro la Road map. Al contrario, indica un assetto finale la cui indicazione è, a mio giudizio, assolutamente essenziale perché la Road map possa cominciare. La comunità internazionale dovrà pur interrogarsi sul perché la Road map non ha cambiato nulla e, in realtà, questo cammino verso la pace non ha mosso neppure i primi passi. Non ci si chiede il perché e si continua a ripetere che quello è il riferimento condiviso: la tragedia del Medio Oriente ha conosciuto a lungo riferimenti condivisi che, tuttavia, non hanno cambiato di una virgola la situazione sul campo. Anzi, via via il succedersi di fallimenti dei processi verso la pace ha inasprito gli animi, ha determinato odi, ha radicato sentimenti di vendetta che davvero appaiono difficilmente sradicabili.
Penso vi sia stato un limite nell'approccio alla questione della pace nel Medio Oriente che accomuna il tentativo di Oslo e la stessa Road map. In definitiva, la comunità internazionale ha cercato di premere sulle parti per imporre un processo di pacificazione senza mai, tuttavia, definire i contenuti della pace. Quella che possa esservi pace senza un accordo di pace è l'illusione che ci ha accompagnato per lunghi anni e non ha prodotto altro che un'escalation di violenza.
Vede, in realtà anche dopo Oslo le due parti, nella convinzione che le decisioni vere si prenderanno alla fine, hanno concepito il processo di pace soprattutto come una fase in cui cercare di guadagnare una posizione negoziale più forte, i palestinesi alimentando la rivolta popolare o tollerando il proliferare di gruppi armati e, dall'altra parte, Israele attraverso la politica della colonizzazione ed attraverso l'occupazione militare e la repressione. L'avvicinamento verso la pace è stato l'avvicinamento ad un'ora «x» del negoziato finale, nel corso del quale l'una e l'altra parte si sono più preoccupate di guadagnare una posizione di forza che non di assecondare la pace. Su questa strada non vi sarà mai la pace.

La sinistra italiana ha una tradizione di dialogo con Israele

Abbiamo incontrato qualche giorno fa, con un gruppo di leader dell'opposizione, il primo ministro Sharon. Avevo avuto modo di incontrarlo anche quando egli era il leader dell'opposizione ed io ero Capo del Governo e lo ricevetti a palazzo Chigi. Lo dico perché talora chi critica il Governo israeliano è indicato come un pericoloso antisemita. La sinistra italiana ha una tradizione di dialogo con Israele e le sue classi dirigenti. Io visitai Gerusalemme non appena fu eletto primo ministro Netanyahu ed andai a parlare con lui della pace. Non solo riconosciamo il diritto di Israele ad esistere, ma lo riconosciamo come un paese democratico e riconosciamo, quindi, che è necessario discutere con le classi dirigenti che i suoi cittadini liberamente si scelgono. Vorrei solo ricordare che anche Arafat è stato eletto dai palestinesi e l'idea bizzarra ed arrogante secondo cui non si può incontrare Arafat - idea che l'Italia ha accettato e l'Europa ha rifiutato - è, a mio giudizio, un ostacolo sul cammino della pace. Comunque, chiudiamo questa parentesi.

L’interpretazione di Sharon della “road map” non fa avanzare il processo di pace

Il primo ministro Sharon cosa ci ha detto? Ci ha detto: ma io interpreto la Road map così. C'è una prima fase, la pacificazione: devono cessare tutte le attività ostili verso Israele. C'è questa prima fase di pacificazione, che evidentemente Israele intende imporre anche con la forza delle armi, dato che tuttora, in queste ore, mentre i gruppi palestinesi sono riuniti a Il Cairo per discutere della possibilità di una tregua delle azioni contro Israele, Israele continua le azioni militari contro i palestinesi: con l'attacco di Ramallah, che ha seminato morti, fra cui un bambino di nove anni; con l'attacco a Jenin, dove sono stati arrestati trenta palestinesi. La prima fase è, dunque, la pacificazione. Pacem faciunt - si ricorda - ... ma desertum pacem appellant. Questo sembra essere il modo in cui Israele concepisce la pacificazione, cioè attraverso l'estensione della repressione militare e di un'azione volta a colpire i gruppi palestinesi. Poi - ci ha detto Sharon -, riconosceremo il diritto ad uno Stato palestinese, ma senza confini e verificheremo questa convivenza; infine - in un futuro indeterminato -, negozieremo i confini dello Stato palestinese.
È evidente che questo programma, questa interpretazione della Road map non ci farà fare neppure un passo verso la pace; d'altro canto, fin dal primo momento il Governo di Gerusalemme ha fatto presente agli americani che la sua era un'accettazione condizionata ad un'interpretazione che essi davano. Questa idea che c'è una prima fase, nella quale non c'è nessuna reciprocità, ma vi è soltanto il dovere dei palestinesi di far cessare ogni atto ostile verso Israele, in una situazione in cui permane l'occupazione militare e la repressione, è uno strano modo di concepire la pace ed è, in sostanza, una concezione che mette nelle mani dell'ultimo gruppo terrorista la possibilità della pace, perché è del tutto evidente che è sufficiente che un gruppo estremo decida di mettere una bomba, per inficiare tutta la complessa costruzione della Road map.
Siamo molto lontani dal modo in cui Rabin concepì la pace, quando disse: dobbiamo negoziare come se non ci fosse il terrorismo e dobbiamo combattere il terrorismo come se non ci fossero negoziati. Concependo, dunque, la lotta al terrorismo e il cammino della pace come un processo parallelo, non come un prima e un dopo, perché l'idea che ci sia un prima e un dopo non ci porterà alla pace.

Palestinesi e israeliani: due popoli vittime dell’aggressione militare e del terrorismo

Signor sottosegretario, in questo senso l'accordo di Ginevra dà un senso alla Road map. Indica un obiettivo che, se fosse condiviso, aiuterebbe il cammino. Anzi, solo l'esistenza di una meta condivisa incoraggia le persone a mettersi in cammino, perché mettersi in cammino, senza sapere verso dove, è assai problematico, qualsiasi sia la classe dirigente che si metta alla guida del popolo palestinese.
Ritengo che per andare in questa direzione sarebbe necessaria una grande capacità di pressione dell'intera comunità internazionale. Una capacità di pressione capace di esercitarsi sulle due parti in modo equanime, senza accettare le preclusioni di una parte e senza sposare un'analisi di questa drammatica crisi come se vi fosse un aggredito e un aggressore. Israele è aggredito dal terrorismo, ma occupa illecitamente la terra dei palestinesi: è insieme paese aggredito e aggressore. I palestinesi hanno la tragica responsabilità di aggredire Israele, con il terrorismo, ma sono insieme vittime di un'occupazione.
Solo se si parte da questa visione, dal fatto che vi sono due popoli vittime e che vi è una comune responsabilità nel conflitto, solo chi assuma questo punto di vista può aiutare il processo di pace.

Lo scandaloso avallo del governo italiano alla costruzione del muro israeliano

Credo, ad esempio, che un Governo come quello italiano, che avalli la costruzione del muro che Israele sta realizzando, evidenzi una posizione singolare, persino imbarazzante.
Nei giorni in cui l'onorevole Fini avallava la costruzione del muro, anche l'Amministrazione americana sospendeva o limitava i crediti ad Israele, quale mezzo di pressione affinché si fermasse quella costruzione. Non voglio parlare dell'appello del Papa né della posizione dell'Europa (Parlamento, Consiglio), di cui il Governo italiano sembra preoccuparsi assai poco malgrado la Presidenza di turno, ma in quei giorni abbiamo finito per essere l'unico Governo al mondo schiacciato in un sostegno acritico.
Certo, in queste ore, dopo il vertice europeo Euromed, è intervenuta una correzione frettolosa; infatti, ministro Frattini ha dovuto ricordarsi che, oltretutto, siamo Presidenti di turno, per cui continuare ad assumere posizioni così dissonanti rispetto a quelle dell'Unione europea diventa imbarazzante perché, almeno in questo momento, l'Italia dovrebbe essere il portavoce dell'Europa; insomma, un pasticcio!
Sinceramente, si ha la sensazione di una posizione incerta, confusa e di una forte tentazione oltranzista, volta a guadagnare una posizione che non è la nostra - lei lo sa benissimo, signor sottosegretario -, non è la politica dell'Italia quella di diventare gli oltranzisti sostenitori delle posizioni più estremiste della leadership israeliana.
Anche certe dichiarazioni stupiscono. Ancora, il ministro Frattini ha affermato che, se il muro è una barriera difensiva lungo il confine... Santo cielo, al Ministero degli esteri credo abbiano come me questo rapporto delle Nazioni Unite! Non parliamo dell'idea di realizzare un muro, ma di un muro in gran parte costruito, naturalmente non sulla green line, ma in gran parte sui territori palestinesi. Parliamo di un muro che ha avuto effetti economici, sociali e umani drammatici, che in questo rapporto sono documentati. Basti pensare alle centinaia di case abbattute e di persone senza tetto; basti pensare che questo muro sequestra e porta dentro Israele gran parte delle sorgenti d'acqua - lei sa meglio di me, signor sottosegretario, cosa significhi l'acqua in quella parte del mondo -, attraverso un'operazione che pregiudica il processo di pace.
E quale autorità ha la comunità internazionale di chiedere ad Abu Ala di fermare il terrorismo, di disarmare i gruppi palestinesi, quando dall'altra parte non riusciamo a fermare operazioni che chiaramente pregiudicano in partenza la possibilità che la Road map abbia successo? Inoltre, ci siamo guadagnati il rifiuto a venire in Italia del segretario della Lega araba, che non è un iman fondamentalista. Si tratta di un avvenimento senza precedenti che rappresenta uno scacco per la nostra politica internazionale.

A rischio la lunga e condivisa politica italiana di equivicinanza

Insomma, è difficile commentare errori così gravi, che hanno fortemente alterato il senso di equilibrio, quella equivicinanza alle ragioni di Israele e del mondo arabo che hanno sempre caratterizzato positivamente la posizione italiana. Non parlo del centrosinistra, parlo di una politica estera condivisa da decenni che non può essere sradicata attraverso un'improvvisazione reazionaria o dovuta a calcoli politici.
Capisco che l'onorevole Fini, per ragioni di politica interna, aveva bisogno di essere accolto bene in Israele ma, per uno che pretende di essere considerato uno statista, bruciare per ragioni di politica interna l'equilibrio di una posizione internazionale dell'Italia, costruita in decenni di politica estera, probabilmente costituisce un prezzo troppo alto da pagare.
Queste sono le preoccupazioni che espongo con una qualche passione, anche perché ritengo che quanto accade in quella parte del mondo sia fondamentale anche per il nostro avvenire, per la nostra sicurezza e per fornire alla lotta contro il terrorismo il senso di una battaglia contro un nemico dell'umanità e non il senso di una lotta tra occidente e mondo islamico.
Signor sottosegretario, lei sa meglio di me quanto l'insieme del mondo islamico misuri la nostra fedeltà ai principi, il nostro non essere per così dire quelli di un doppio standard, dal modo in cui affrontiamo la crisi israelo-palestinese e dalla nostra capacità di difendere i diritti, riconosciuti internazionalmente, di un popoloche ha il diritto, appunto, ad una propria patria, e che ha il dovere di impegnarsi per garantire un pari diritto all'esistenza di Israele e alla sicurezza del suo popolo.

Combattere il terrorismo palestinese e fermare le scelte irresponsabili della leadership israeliana

Non credo che la via dell'escalation militare dia sicurezza. Da quando Israele è governata da Sharon, ci sono stati non 892 morti, come ci ha detto il Primo ministro israeliano: quelli sono i morti israeliani, che certamente ci colpiscono, soprattutto le tante vittime civili di un terrorismo barbaro e senza giustificazione; ma siamo stati educati a pensare che la vita umana è sacra e che nella somma dei morti bisogna metterci anche i 3 mila palestinesi, per avere il quadro della situazione. Anche essi sono in gran parte vittime civili di una repressione militare che è, per così dire, poco attenta: quando si sparano i missili per uccidere un militante in automobile in una strada affollata di Gaza, inevitabilmente si finisce per uccidere donne e bambini.
Questo disastro può essere fermato, ma occorre una comunità internazionale. C'è qualcosa che riguarda anche la sinistra: se oggi non dicessimo ai palestinesi che devono combattere contro il terrorismo, non faremmo la nostra parte; se solo per un momento giustificassimo l'orrore del terrorismo suicida, commetteremmo un delitto. Ma dall'altra parte, chi non sa agire verso Israele, chi non sa fermare le scelte irresponsabili della leadership israeliana, chi non sa spingere Israele verso la pace commette egualmente un tragico errore.

Questione mediorientale: un terreno di comune responsabilità per le forze politiche italiane

Dite spesso che ci vuole una comune responsabilità: sto appunto indicando il terreno di una comune responsabilità. Vorremmo avere un Governo in grado non di inventare nulla, perché non si tratta di questo, ma di proseguire lungo il cammino dell'Italia democratica e di riguadagnare la posizione di equilibrio e di prestigio che l'Italia ha avuto in quella parte del mondo, evitando le forzature, gli errori, le rozzezze oltranziste che si sono affacciate in questi mesi e che, a mio giudizio, hanno fortemente indebolito il nostro ruolo e nostro prestigio.

* Testo integrale del discorso dell’on. Massimo D’Alema, presidente dei Democratici di Sinistra ed ex Capo del Governo italiano, svolto nella seduta del 4/12/2003 della Camera dei Deputati; tratto da “Resoconto stenografico dell’Assemblea” in
http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/stenografici/sed396/s170.htm


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