( I BERBERI )
* Capitolo tratto dalla tesi di laurea “Pluralismo e minoranze nell’Africa francofona. Il caso dei berberi in Algeria” presentata da Enza Reina, relatrice prof. Elisabetta Palici di Suni Prat, presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università di Torino, anno accademico 2002-2003.


SOMMARIO
1 L’area geografica: il Maghreb.
2 L’origine della parola.
3 Alcuni accenni etnologici.
4 La lingua berbera.
5 La ripartizione attuale della lingua berbera in Africa.
6 La scrittura.
7 L’organizzaz ione politica.

1. L’area geografica: il Maghreb
Il deserto del Sahara, che si estende per oltre cinquemila chilometri dall’Oceano atlantico al Mar Rosso con un’ampiezza media di duemila chilometri, ha costituito fin dai tempi più antichi una barriera fra le popolazioni che si erano stanziate lungo la fascia mediterranea e quelle insediate invece a sud del deserto. La differenziazione tra questi insediamenti ha dato origine alla distinzione tra “Africa bianca” e “Africa nera”.

L’Africa bianca si protende dallo stretto di Gibilterra al canale di Suez ed è limitata a nord dal Mediterraneo e a sud dal deserto del Sahara.
Questa regione non si presenta fisicamente in modo omogeneo. Ad oriente la Libia e l’Egitto morfologicamente appaiono come la naturale continuazione dell’Africa sahariana, regioni caratterizzate da tavolati aridi e desertici, resi fertili nella parte più orientale dalla presenza del fiume Nilo; nella zona occidentale invece, si rileva una tipica terra mediterranea con la presenza di catene montuose più recenti (sorte contemporaneamente alle Alpi) durante l’orogenesi alpina.

Il nome “Maghreb” con cui viene comunemente identificata la porzione nord-occidentale di tale regione, comprendente il Marocco, l’Algeria e la Tunisia, deriva dal termine arabo “ al-maghrib” (luogo in cui tramonta il sole).

-Marocco:
Situato nella parte più occidentale dell’Africa mediterranea, il Marocco comprende pressoché interamente la regione dominata dal sistema montuoso dell’ Atlante, costituito da massicci geologicamente giovani. Tale sistema si suddivide in tre catene principali separate tra loro da vasti altipiani o da valli profonde, che costituiscono le vie di comunicazione naturali fra le varie regioni. La catena più alta è quella mediana che prende il nome di Alto Atlante. Quella più settentrionale è il Medio Atlante, che si salda attraverso una stretta depressione naturale al Rif: una serie di rilievi che si protendono verso le coste del Mediterraneo. A sud l’Alto Atlante confluisce nell’ Anti Atlante, la catena più meridionale, che degrada verso le regioni desertiche del Sahara marocchino.
I fiumi, per la vicinanza al mare delle catene montuose, hanno un corso sempre molto breve, ma la loro portata è abbondante e permette un’intensa irrigazione del suolo.

-Algeria :
L’Algeria occupa tutta la parte mediana della regione dell’Atlante e si spinge a sud fino al cuore del deserto sahariano.
L’Atlante si sdoppia in due rami principali, uno meridionale, l’ Atlante sahariano che affonda le sue pendici meridionali nel Sahara, e l’altro settentrionale, l’ Atlante Telliano, costituito da una serie di massicci poco elevati che spingono i loro contrafforti fino al mare dando vita ad una costa frastagliata. Tra le due catene si aprono altipiani stretti e allungati caratterizzati da depressioni occupate da laghi salmastri, alimentati da corsi d’acqua provenienti dai versanti interni del Tell e dell’Atlante Sahariano.
Una fascia di oasi che si allineano alle falde del versante meridionale dell’Atlante sahariano, costituisce il limite con il deserto.
Il Sahara algerino, che costituisce l’ottanta percento del territorio nazionale, comprende sia il deserto di sabbia (erg) che quello roccioso (hammada). Al centro del deserto algerino s’innalza l’imponente massiccio vulcanico dell’ Ahaggar.

2 L’origine della parola
L’origine della parola berbero non risale agli stessi indigeni, ma agli arabi che, conquistando le regioni nord africane, chiamarono al-Barbar (il corrispettivo verbo veniva adoperato dai geografi arabi del Medioevo con il significato di: “parlare molto ad alta voce, mormorare , blaterare”) tutte le popolazioni autoctone che incontrarono.
Può ritenersi verosimile che gli arabi ne avessero derivato tale designazione venendo a contatto nelle città costiere con i residui dell’elemento greco e latino e avendo appreso da esso i termini BàpBapoç e barbarus (in latino tale termine indicava l’individuo incolto appartenente a popolazioni che vivevano al di fuori dell’ orbis romanus) Tuttavia, vi è qualche traccia di nomi propri di frazioni della stirpe originaria da cui potrebbe essere derivato il nome al-Barbar con successiva estensione a tutto il complesso della popolazione. Presso i Berberi attuali, tuttavia, questa denominazione è generalmente intesa come di provenienza straniera. I singoli gruppi usano per designarsi nomi differenti, in particolare quello di Imazighen (sing. Amazigh) il cui significato originario sembra essere assimilabile a quello di “uomo libero”, o ancora, “uomo di nobile stirpe”. Il vocabolo Amazigh si manifesta con varietà fonetiche e morfologiche e si rileva esistente sin dall’antichità, estrapolandolo dalle forme ellenizzate e latinizzate dei termini: Màlikeç
e Mazices.
A sua volta qualche gruppo che designa se stesso con il nome di Imazighen applica lo stesso nome a tutte le altre popolazioni parlanti lingue berbere, sicché può essere ritenuto come nome identificativo maggiormente diffuso.

3 Alcuni accenni etnologici
Considerando lo strato etnico primitivo dell’Africa del nord e le successive sovrapposizioni di altri popoli, emergono due questioni essenziali:
-quale sia l’origine di tale substrato.
-se i contatti con le altre popolazioni in epoca storica ne abbiano
alterato profondamente la fisionomia etnica.
La prima questione è stata ed è tuttora dibattuta fra antropologi, storici
e linguisti.
Le principali teorie sviluppatesi sono le seguenti: Origine africana: i berberi insieme ad egiziani, nubiani, abissini, galla, somali ecc… formano il gruppo etnico camitico , autoctono dell’Africa, e che avrebbe avuto la sua origine nell’attuale Etiopia, da dove si sarebbe diffuso in altri paesi africani e sarebbe emigrato anche nell’Europa Meridionale. E’ questa la teoria (legata al nome di Giuseppe Sergi) della stirpe mediterranea, che afferma le affinità antropologiche dei popoli abitanti intorno al bacino del mar Mediterraneo, i quali sono compresi poi in un gruppo più grande: quello camitico.
Dediti alla pastorizia e al nomadismo, i camiti hanno caratteri somatici europoidi, maggiormente accentuati nei gruppi settentrionali; nel corso delle loro migrazioni e conquiste nell’Africa settentrionale e orientale hanno determinato il destino etnico, politico e culturale di gran parte del continente africano.
Origine asiatica: in base alle affinità rilevate fra la famiglia linguistica camitica e quella semitica, si è sostenuto che dall’Asia mediorientale (Yemen e Siria), patria comune dei due rami, quello camitico, cui appartengono i berberi, si sarebbe spostato in Africa, diffondendosi nelle regioni nord-orientali e settentrionali. Teoria confutata, però già da Ibn Khaldun 25 , che scriveva nella sua “Histoire des Berbères”: “L’opinion […] qui les fait émigrer de Syrie […] est tellement insoutenable qu’elle merite d’être rangée au nombre des fables”
Origine mista: le popolazioni berbere sarebbero composte di elementi diversi, più o meno fusi fra di loro, in parte autoctoni dell’Africa, in parte provenienti da Europa e Asia. In ambito linguistico questa teoria viene sposata da Greenberg che supera la presunta dicotomia tra i due gruppi etnici (camitico e semitico) affermandone la comune origine verificata nell’individuazione di un’unica famiglia linguistica, cioè quella afroasiatica, suddivisa al suo interno in cinque sottogruppi (semitico, cuscita, berbero, egiziano antico e ciadico).
Considerando la quantità di invasioni e dominazioni di popoli stranieri e la frequenza in epoche preistoriche degli spostamenti e delle migrazioni di gruppi etnici differenti, si può ritenere che il concetto di origine mista sia il più verosimile. Infatti, gli studi più recenti tendono a considerare i popoli nordafricani come originariamente composti da elementi diversi, alcuni presentando affinità con popolazioni mediterranee e del continente europeo, altri con quelle di provenienza asiatica.
La seconda questione che analizza se la compagine berbera esistente in epoca remota nell’Africa settentrionale si sia alterata e trasformata per i contatti avuti con altri popoli dal I millennio a.C. in poi, è stata oggetto di ampi studi.
Per quanto riguarda il periodo antico, risulta che fenici, greci, romani, vandali e bizantini che dominarono le regioni abitate dai berberi, non vi apportarono grandi quantità di popolazione nuova che, mescolandosi con quella indigena, ne potesse alterare notevolmente la fisionomia etnica. Inoltre, l’elemento colonizzatore vive va generalmente separato rispetto a quello autoctono.
Per quanto riguarda i contatti con il mondo arabo, occorre distinguere due momenti. Durante il primo, stimabile intorno al 642 d.C., sotto il Califfato di ‘Umar ibn al-Khattab (634-644), gli arabi attuarono molte spedizioni nell’Africa settentrionale, che dominarono per qualche tempo tra frequenti ribellioni di indigeni, e il formarsi di governi indipendenti dal Califfato. Il dominio arabo ne risultò indebolito, per essere in seguito eliminato nel X sec. In questo periodo non vi furono spostamenti di grandi masse di popolazione araba tali da determinare un mescolamento con quella berbera.
Nel secolo XI avvenne, invece, la famosa invasione della tribù dei Banu Hilal e di quella dei Banu Sulaim che occuparono molte regioni nordafricane 27 . Gli storici moderni, riprendendo un’idea avanzata per la prima volta da Ibn Khaldun, sono soliti attribuire proprio a questo episodio il declino della vita sedentaria nel Maghreb. Si ritiene che tali incursioni abbiano profondamente segnato tutta la storia successiva, ponendo fine alla presenza di autorità stabili in grado di garantire lo sviluppo agricolo, modificando la destinazione delle terre e facendo penetrare presso la popolazione locale un’ondata di immigrazione araba. Occorre però precisare che i Banu Hilal penetrarono in Tunisia attraversando l’Egitto nella prima metà del XI secolo. Essi assecondavano la politica della dinastia fatimide nell’area egiziana tendente ad indebolire il potere degli Ziriti, i governanti locali di Qayrawan,che erano stati vassalli dei Fatimidi ma si erano sottratti
alla loro obbedienza. Gli Ziriti, però, stavano perdendo la loro forza, a causa del declino commerciale di Qayrawan, e il loro regno si stava disintegrando in una serie di principati basati su città di provincia. Può essere probabile che siano stati l’indebolimento dell’autorità e il declino dei commerci, e quindi della domanda, a rendere possibile l’espansione della pastorizia. Senza dubbio tale espansione causò distruzioni e disordine, ma non sembra che i Banu Hilal fossero ostili in linea di principio alla vita dei sedentari poiché intrattenevano relazioni con le preesistenti dinastie. Se in quest’epoca vi fu un avvicendamento nell’equilibrio rurale, è possibile che esso sia dipeso anche da altre cause. L’espansione della pastorizia, fu quindi, forse più l’effetto che la causa principale del collasso della società agricola.
Riguardo alla consistenza dell’ondata migratoria, le teorie in proposito sono divergenti: non sembra che i Banu Hilal fossero così numerosi da sostituire con elementi arabi la popolazione berbera, vero è, però, che da questo momento in poi, vi fu, effettivamente, un’espansione della lingua araba, ma la sua causa non fu tanto la diffusione delle tribù quanto l’ assimilazione di berberi al loro interno. Prescindendo dall’effettivo quantitativo numerico, con questa immigrazione si ha un vero e proprio incremento della popolazione araba rispetto a quella berbera. Alcuni gruppi di essa si sono conservati intatti, altri si sono mescolati agli indigeni, molti dei quali si sono arabizzati nel linguaggio.
Alcuni antropologi, ed in particolare Chantre all’inizio del secolo, hanno proceduto all’esame diretto dei caratteri somatici delle popolazioni locali e hanno riscontrato il tipo arabo sporadicamente solo in qualche individuo, mentre i gruppi che si definiscono di origine araba o prodotto di mescolanza di arabi con berberi, sarebbero composti in realtà da berberi arabizzati o islamizzati più profondamente di altri. L’originario elemento berbero si sarebbe quindi mantenuto intatto non solo attraverso i contatti con i dominatori e colonizzatori del periodo antico della conquista araba, ma anche attraverso l’immigrazione delle tribù gia citate dei Banu Hilal e dei Banu Sulaim. A spiegazione di come l’invasione, per quanto documentata storicamente, non abbia lasciato tracce dal punto di vista etnico, gli antropologi, sostengono che essa non fosse composta tutta da arabi, ma in parte da popolazioni dell’Africa nord orientale aggregatesi al movimento migratorio; il nucleo arabo sarebbe quindi stato assorbito, attraverso il susseguirsi delle generazioni, grazie al fenomeno noto come “fagocitismo” antropologico.
A proposito dell’etnologia tradizionale è da ricordare anche la classificazione dei berberi secondo le genealogie indigene riportate da scrittori arabi, e in particolare da Ibn Khaldun, che fanno risalire la popolazione a due capostipiti: Baranes, da cui discenderanno gli agricoltori sedentari, e Madghis (ma anche Botr) il cui nome significa “privo di discendenza”, dal quale si svilupperà la stirpe dei nomadi dediti alla pastorizia. Rimane ignota l’origine da un comune antenato.
I Baranes sarebbero quindi i soli veri Imazighen, i discendenti di Madghis, invece, i figli adottivi di quest’ultimo, privato della sua discendenza.
I Botr sembrano rappresentare per Ibn Khaldun un substrato di popolazioni indigene, molto antico nel nord dell’Africa. All’interno di questo gruppo, egli annovera gli Zenata, sopraggiunti in un periodo più recente dalle regioni orientali, che si distinguono grazie ad un dialetto proprio che ha conservato ancora oggi le sue particolarità.
Il gruppo dei Baranis comprende al suo interno una serie di sottogruppi tra i quali si ricordano, i Masmuda, sedentari, stanziati nell’area occidentale lungo le catene montuose dell’Atlante, i Sah Aga: ulteriormente suddivisi in due rami differenti.
Il ramo sedentario, stabilitosi nelle Cabilie algerine e il ramo nomade avente come ambiente tradizionale il deserto del Sahara occidentale.
La parentela tra i due gruppi si manifesta nella similitudine dei dialetti.
Probabilmente questa bipartizione non fa che riprodurre la ben nota contrapposizione ideale tra nomadi e sedentari, di cui si è già osservato il peso.
In opposizione alle tesi esposte è il pensiero di Bousquet che afferma con decisione l’ “inexistence d’une race berbère” sottolineando la totale mancanza di omogeneità etnica delle popolazioni in questione “[...] il n’existe aucune parenté entre les berbérophones de la Kabilie, par example, ou de l’Aurès, et les habitants du Mzab ou de Djerba […]” affiancandosi a sua volta alle tesi di Leblanc, che avendo condotto studi di antropologia fisica e sui gruppi sanguinei, arriva alla conclusione che solo la presenza di un gruppo linguistico berbero è l’unico dato certo a priori. Bousquet sottolinea ancora l’importanza della religione musulmana come elemento assolutamente non secondario dell’analisi, in quanto comune denominatore di una immensa comunità internazionale, che permette ai berberi di fondersi all’interno di un’altra civiltà, a suo giudizio : “bien supérieure à leur propre”. Caratterizza la sua concezione un’ultima precisazione: Bousquet afferma che la concezione di appartenenza ad un gruppo etnico sia una questione meramente mentale. Il berbero che, “déberbérophonisé” si avvicina ad un’altra civiltà (romana, araba, francese) reagirà secondo gli stimoli provocati da quest’ultima, per quanto non appartenente ad essa. I berberi non hanno alcun senso di percezione della loro identità né della loro comunità ed alcun interesse nell’ evidenziarle: “Ils l’ont aujourd’hui moins que jamais, et ils ne l’auront pas à l’avenir”.

4 La lingua berbera

Da qui ed in seguito, il termine "lingua" verrà utilizzato nella seguente accezione: “sistema di suoni articolati distintivi e significanti, di elementi lessicali, cioè parole e locuzioni e di forme grammaticali, accettato e usato da una comunità etnica, politica o culturale come mezzo di comunicazione per l’espressione e lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un organismo storicamente determinato, con proprie leggi fonetiche,morfologiche e sintattiche”( Lingua, in Vocabolario della lingua italiana, II, Treccani, Roma, 1987.). Il termine sarà spesso in rapporto con il vocabolo “dialetto”: “sistema linguistico di ambito geografico o culturale limitato in relazione ad un altro sistema divenuto dominante e riconosciuto come ufficiale” (Dialetto, in Vocabolario della lingua italiana, II, Treccani, Roma, 1987).Occorre, però, precisare quanto segue: in ambito strettamente linguistico non esiste alcuna differenza tra i due termini; le ragioni che fanno utilizzare le due differenti voci sono unicamente considerazioni extra-linguistiche che nulla hanno a che vedere con le strutture interne delle lingue. Come si può notare nelle due precedenti definizioni, viene sottolineata in entrambi i casi l’e ssenzialità del riconoscimento e dell’ufficialità dello stesso da parte di comunità politiche,etniche o culturali.

A partire dal XIX secolo, numerosi studiosi hanno cercato di stabilire quali potessero essere le parentele della lingua parlata dai berberi.
Fu dimostrato scarso interesse alle corrispondenze formali e si fondarono le prime classificazioni solo su quelle lessicali.
Comparando liste di parole, si cercò di “provare” l’affinità d el berbero con le lingue indoeuropee, con il basco, con l’egiziano antico, con il semitico e anche con alcune lingue parlate dagli indiani d’America.
Queste ipotesi non hanno alcun valore scientifico, poiché si basano su similitudini fonetiche e su prestiti linguistici spesso numerosi e di antica origine nella lingua berbera.
Nel 1838, Champollion, scrivendo la prefazione al “ Dictionnaire de la langue berbère”di Venture de Paradis, collega tale lingua all’egiziano antico; altri, più numerosi, insistono nell’avvicinarlo al gruppo linguistico semitico.
Bisognerà attendere il passo decisivo realizzato grazie agli studi di Marcel Cohen, che integra il berbero nel vasto insieme di lingue della famiglia camito-semitica comprendente l’egiziano antico (e il copto in quanto sua espressione attuale), le lingue semitiche e il cuscita.
Ciascuno di questi gruppi linguistici presenta caratteri di originalità, ma possiede anche affinità tali da ricongiungersi alla tesi di Cohen.
Questi parallelismi non si manifestano in semplici analogie lessicali ma pervadono la struttura stessa delle lingue in questione; si osservano principalmente nel sistema verbale, nella coniugazione e nelle radici delle parole.
L’imparentamento del berbero al gruppo camito-semitico non è stato accettato facilmente da altri studiosi. Alcuni di loro, ed in particolare André Basset, lo contesta ancora nel 1952, scrivendo in tono molto scettico che:“la notion courante du berbère repose essentiellement sur des arguments négatifs, le berbèbere ne nous ayant jamais été présenté comme introduit, la présence, la disparition d’une autre langue indigène, ne nous ayant jamais été clairement attestée”. Altri linguisti (Rössler, Mukarovsky) hanno ripreso, su differenti basi, le antiche ipotesi.
Le argomentazioni presentate non paiono, però, molto convincenti.
Da molto tempo, ormai l’appartenenza del berbero al novero delle lingue camito-semitiche resta la più plausibile.
Salem Chaker sottolinea un ulteriore aspetto del dibattito: la lingua araba non è che una branca particolare e recente dell’insieme delle lingue semitiche. La famiglia semitica è a sua volta inclusa in una macro famiglia linguistica che si dirama in ulteriori ramificazioni. Il berbero non appartiene al medesimo ramo dell’arabo e risulta più antico di esso. Tutto ciò significa che esiste un rapporto di parentela indiretta e lontana tra le due lingue. In termini cronologici l’origine comune (per quanto Chaker la consideri come mai esistita) è di molto antecedente al IV secolo a.C. (momento in cui la branca egiziana e quella semitica si sono già costituite in insiemi distinti). Questa datazione, ipotetica e approssimativa, sembra essere confermata da dati antropologici: il popolamento attuale del Maghreb, viene collocato indicativamente intorno all’800 0 a.C., a quest’epoca, i proto -mediterranei
“Capsiani” sostituiscono lentamente le popolazioni anteriori.
Tale lontana parentela tra le due lingue non impedisce che il berbero sia una realtà linguistica perfettamente autonoma.

5 La ripartizione attuale della lingua berbera in Africa
In assenza di precisi dati statistici sulla diffusione del berbero, è difficile formulare circa il numero complessivo degli attuali parlanti.
Secondo alcune stime, essi sarebbero non meno di quindici milioni. La lingua si presenta suddivisa in una serie di dialetti che a volte tendono a raggrupparsi in più vaste unità regionali, ma in qualche caso sono ridotti a parlate di estensione molto limitata.
Volendo semplificare un quadro estremamente frammentato, si possono rilevare alcuni principali raggruppamenti dialettali:
-tamahaq, dialetto dei Tuareg del Sahara., circa 800.000 parlanti (tra Libia, Algeria, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria e Ciad).
-tašawit, circa 850.000 parlanti, nel massiccio montuoso dell’Aurès.
-taqbaylit, dialetto cabilo, circa 6-7 milioni, nei monti della Cabilia e nelle città del Sahel, oltre che ad Algeri.
-tumzabt, circa 100.000 parlanti nello Mzab (Sahara algerino).
-tarifit, dialetto del Rif nel nord del Marocco, circa 1 milione.
- tanaziyt, dialetto dei Berberi del Medio Atlante, circa 4 milioni di parlanti
-tašlhit, dialetto dei Berberi dell’Alto Atlante, Anti -Atlante e della regione dell’Oued Sous (Marocco), circa 4 milioni di parlanti.
- taddugiyah, dialetto della tribù Zenata (Mauritania), tra i 5000 e i 10.000 parlanti.
In Egitto, Libia, Tunisia e Mauritania la popolazione berberofona è percentualmente molto bassa e tende, in modo probabilmente irreversibile, a passare all’utilizzo della lingua araba. In Algeria, dove parla berbero il trenta percento della popolazione (circa sei milioni di persone), e in Marocco, dove la percentuale della popolazione berberofona supera il quaranta percento (circa nove milioni di persone), la lingua berbera ha una posizione tutt’altro che trascura bile.
Da questa distribuzione si nota come nel corso del processo di arabizzazione del nord Africa, i gruppi berberofoni siano stati sparpagliati sui monti e nei deserti. E’, infatti, in zone di questo tipo che attualmente abita il gruppo linguisticamente meno toccato dagli influssi dell’arabo: quello dei Tuareg del Sahara. Sono pochi i berberofoni rimasti sulla fascia costiera: se ad ovest tutta la costa sud del Marocco che si affaccia sull’Atlantico parla ancora berbero, ad occidente, sul Mediterraneo, oltre alla Cabila marittima si riscontrano solo il parlato libico di Zuara e quello tunisino di Jerba.
Cedendo all’influenza dell’arabo, i berberi diventano spesso bilingui, va comunque tenuto presente che ciò riguarda principalmente la popolazione maschile: la donna, che spesso non riceve l’istruzione pubblica obbligatoria, è di solito la conservatrice dell’eredità linguistica (anche se con l’avvento dei media e in particolare della televisione, rigidamente arabofona, tale realtà è soggetta a mutamento).

Nei paesi colonizzati dalla Francia, la forte e prolungata presenza di coloni e di un’amministrazione rigorosamente francofona, ha introdotto, accanto all’arabo, la nuova lingua coloniale. Non pochi nordafricani, a disagio con l’arabo classico, o perché di ma drelingua berbera, o perché abituati a parlare dialetti arabi assai diversi dal modello classico, hanno ripiegato sul francese come lingua di comunicazione (oltretutto in grado di offrire prospettive occupazionali nella Francia metropolitana).
Le successive lotte per l’indipendenza dei paesi del Maghreb sono state condotte all’insegna di un rifiuto della cultura coloniale europea, contrapponendo ad essa, la tradizione arabo-islamica.
In sintesi, quasi venti milioni di berberofoni vivono disseminati su un territorio di cinque milioni di chilometri quadrati, che si estende dai confini tra l’Egitto e la Libia (oasi di Siwa) sino ad arrivare alle isole Canarie, e dalle coste del Mediterraneo fino alle rive del fiume Niger.
Tutt’altro che trascurabile è anche il numero di Berberi emigrati in Europa e in America (soltanto in Francia si calcola vi siano tra i cinquecento e i settecentocinquantamila berberofoni di origine algerina e oltre duecentomila di origine marocchina).
Tale frammentazione geografica degli Imazighen non contribuisce andare omogeneità alle loro comuni rivendicazioni, a discapito del considerevole peso demografico.

6 La scrittura
Ad eccezione dei Tuareg che utilizzano un alfabeto chiamato tifinay la cultura berbera è stata fino ad oggi una cultura eminentemente orale, e la letteratura dei Berberi è consistita soprattutto in creazioni popolari orali. Nondimeno, fin dall’Antichità sono stati intrapresi diversi tentativi di codificare la lingua berbera o alcuni tra i suoi dialetti con l’ausilio di differenti sistemi grafici.
Alcune iscrizioni molto antiche (la Stele del tempio di Massinissa risalente al 139 a.C.), reperite in gran numero soprattutto in Tunisia e in Algeria, ma anche in Libia e Marocco, risalgono a più di duemila anni fa, e sono state realizzate con un’originale scrittura consonantica assai simile all’attuale alfabeto dei Tuareg. Sull’origine di questo alfabeto si conosce ben poco. E’ stata ipotizzata una derivazione dal coevo fenicio ma, per quanto questa ipotesi si appoggi alla somiglianza tra le lettere e sul nome stesso dell’alfabeto, il cui significato è di: “ (lettere) fenicie”, le differenze tra i due alfabeti appaiono macroscopiche. Vi è chi ha individuato tale origine nei geroglifici egiziani o nelle scritture semitiche meridionali, ma, al di là di una somiglianza nella forma di alcune lettere, nessun dato certo conforta questa teoria.
L’ipotesi più accreditata, infine, sembra essere quella che stabilisce la derivazione della scrittura berbera dall’alfabeto libico.
Come l’alfabeto fenicio e come quello arabo, l’alfabeto libico è interamente consonantico, diffuso in un’area molto estesa, si suddivideva in differenti sistemi, alcuni apparentati, ma sensibilmente difformi:
- il Libico orientale nel quale sono state redatte le iscrizioni ritrovate in Numidia
- il Libico occidentale esteso nel territorio della Mauritania
- le scritture sahariane antiche, antenate del tifinay odierno, ma incomprensibili ai Tuareg attuali.
Il tifinay è il sistema di scrittura degli Tuareg attuali, è consonantico, ma dispone di un segno, per indicare le vocali, anche se la forma dei caratteri è lontana da essere standardizzata e in diverse tribù, singole lettere possono mutare il proprio valore o la propria forma.
La scrittura tuareg è insegnata esclusivamente dalle donne ai bambini; l’uso dell’alfabeto appare abbastanza diffuso (da alcune ricerche effettuate nell’Hoggar due persone su tre sono in grado di utilizzarlo), in genere viene adoperato per la composizione di lettere, brevi iscrizioni su oggetti oppure i singoli caratteri assumono la funzione di marchio per indicare il possesso dei capi di bestiame.
Con la crescente consapevolezza dell’importanza di preservare la propria lingua e la propria cultura, molti Berberi cercano di far assurgere il proprio idioma alla dignità di una lingua scritta, con la conseguenza di un acceso dibattito riguardo al metodo di trascrizione.
Chi, come gli Chleuh del sud del Marocco, già possedeva una secolare tradizione di testi fissati nello scritto con l’alfabeto arabo, trova naturale impiegare questo alfabeto (anche se i metodi codificati di trascrizione non sono realmente conosciuti che da pochi dotti), mentre tutti coloro che cercano di trascrivere il berbero con i caratteri arabi, si ispirano, di fatto, alle pratiche di scrittura dell’arabo che vengono insegnate nelle scuole e non alla tradizione plurisecolare. Il risultato è una grafia spesso improvvisata, poco coerente. Chi invece come i Cabili, o i Berberi del centro del Marocco non aveva una tradizione consolidata, ha preferito rivolgersi all’alfabeto latino, cui avevano fatto ricorso nei loro studi linguistici i berberisti europei.
I Tuareg, pur possedendo una scrittura propria, hanno realizzato la poca facilità di impiego di una grafia così priva di vocali, ed hanno tentato di “migliorarla” aggiungendovi delle vocali, o si sono rivolti alla trascrizione in caratteri latini, la quale è stata proposta in Niger e in Mali per armonizzare la grafia con quella delle altre numerose lingue parlate nel resto del paese.
Gli sforzi dei Tuareg per arricchire la propria scrittura non vanno confusi con quelli dell’ “Académie berbère”, operante a Parigi, per unificarla, standardizzarla e renderla adatta a trascrivere i suoni dei dialetti berberi del nord. La scrittura risultante è stata nominata Neo-tifinagh, ed oggi ne esistono numerose varietà, in seguito ai diversi tentativi fatti da svariati enti e singole personalità allo scopo di creare una scrittura adeguata, a volte anche con procedimenti discutibili (ad esempio si è cercato di “mediare” tra forme differenti di uno stesso grafema creando lettere non esistenti in nessun dialetto). Questa molteplicità di alfabeti “ neo - tifinagh” oggi esistenti è di per sé un ulteriore dato di fatto che rende problematica l’adozione generalizzata di questa grafia . La forte spinta a adottarla sembra più che altro legata a fattori ideologici quali la riscoperta della “propria ” scrittura e il tentativo di mediare tra i fautori della grafia a base latina , percepita come “ colonialista”, e quella a base araba sentita come “islamista”. Negli ultimi anni, poi, diverse iniziative sono sorte allo scopo di creare punti di riferimento per una standardizzazione della grafia (un colloquio a Ghardaia nel 1991, alcuni colloqui e ateliers a Parigi nel 1993, 1996, 1998, ad Utrecht, a Tizi Ouzou), ed oramai può dirsi affermata una trascrizione a caratteri “greco -latini” comprendente, oltre a simboli dell’alfabeto latino anche un paio di lettere greche.

7 L’organizzazione politica
Si farà menzione di alcuni istituti caratterizzanti la struttura dei villaggi berberi, indirizzando ad altra sede, l’analisi del diritto consuetudinario.
All’i nterno delle tribù berbere il primo elemento associativo è rappresentato dal nucleo familiare composto da padre, madre e figli, oltre a tutti gli ascendenti o discendenti. Alla base della struttura si ritrova l’ ikhs (kharouba, in Cabilia), ovvero il ceppo, le souche ancestrale 36 ovvero la famiglia estesa a un limitato numero di generazioni (paragonabile alla gens romana). Un gruppo di frazioni familiari costituisce la tribù (taqbilt). Le tribù si raggruppano talvolta in confederazioni, tra le quali, però, non sussiste una coordinazione organica. Il legame di sangue è l’elemento che unisce i diversi gruppi, per quanto sia ammessa, sotto diverse forme, la naturalizzazione dello straniero.
Caratteristica delle popolazioni berbere è la divisione tradizionale tra due grandi gruppi antagonisti: due sistemi di alleanze politica ed economica (çoffs: filo). L’appartenenza all’istituto è determinata dal legame familiare e non dall’adesione individuale e volontaria. La fedeltà al çoff è elemento essenziale. Bousquet, nella sua analisi ne definisce la struttura come vagamente assimilabili a quella di una “ligue”. Tali raggruppamenti possono essere chiamati in causa in ogni occasione sia sul piano collettivo che su quello individuale. I çoffs possono comprendere tra le loro componenti sia differenti tribù (o confederazioni di tribù) o gli ikhs. I diversi tipi di çoffs si compenetrano strettamente, ognuno, dal punto di vista della sua composizione mantiene un carattere misto. In particolare, in Cabilia: “Un çoff kabyle n’es t autre chose qu’une association d’assistance mutuelle dans la défense et dans l’attaque pour toutes les èventualités de la vie” 38 . Quando il çoff cessa di offrire appoggio efficace, è lecito, per i suoi appartenenti aderire ad un altro. Ogni villaggio, in linea generale prevede la presenza di due çoffs, raramente paritari per numero di appartenenti e mezzi d’azione. Il çoffs più debole, in genere ricerca alleanza con altri çoffs dei villaggi limitrofi. Questa ulteriore associazione non avviene tra tutte le tribù indistintamente, ma con il tempo si sono formati dei gruppi di tribù che si prestano mutuo soccorso. I fondi necessari ai bisogni del çoff sono forniti da tassazioni volontarie, i capi del çoffs rivestono un ruolo importate all’interno del villaggio, essi non dirigono a loro discrezione le attività del çoffs, ma detengono un’influenza considerabile e possono disporre di poteri
significativi. Le occupazioni di chi è investito della fiducia del çoff sono varie (l’ascolto delle doglianze, il controllo de l çoffs avversario, il mantenimento dell’armonia all’interno del proprio çoff).
L’istituto intorno al quale ruota la vita politica del villaggio è la djemmâa (il termine subisce differenti mutamenti fonetici a seconda delle zone di appartenenza geografica), ovvero l’assemblea generale dei cittadini. Ogni uomo che raggiunge la maggiore età ne fa parte.
L’assemblea si riunisce una volta a settimana, salvo che non sorga la necessità di una seduta straordinaria. Tutti i cittadini sono tenuti ad assistere alle riunioni, coloro che si astengono senza una motivazione valida o senza permesso sono soggetti al pagamento di un’ammenda.
Le sedute si svolgono all’aperto, tutti i partecipanti sono seduti per terra e ogni oratore interviene dal proprio posto senza alzarsi. Le riunioni, in genere, sono molto lunghe. Le decisioni, non vengono prese con la maggioranza dei voti, e per le questioni di rilevante importanza, è necessaria l’unanimità. L’opinione della minoranza, per quanto debole, è comunque presa in considerazione. Se non viene raggiunto un accordo la discussione viene aggiornata e ripresa a distanza di tempo. Nei casi in cui è necessaria una soluzione in breve tempo, vengono convocati i notables della tribù: essi formano, assistiti da due marabutti, un tribunale o un consiglio davanti al quale vengono presentate le opinioni contrastanti e che si pronuncia senza possibilità d’appello. A volte, la decisione può essere deferita alla djemmâa di un altro villaggio.
Con il termine âk’al (titolo che viene esclusivamente conferito dall’opinione pubblica), si indicano gli uomini del villaggio reputati saggi, gli anziani e i capi famiglia. Essi sono i membri di un’assemblea ristretta che esamina ogni questione prima di sottoporla alla discussione pubblica. Quando, di comune accordo, essa stabilisce su una questione, l’approvazione della sua decisione da parte dell’assemblea generale diventa una semplice formalità. I poteri della djemmâa si estendono a tutto ciò che concerne il villaggio. Essa emette nuovi regolamenti, quando lo giudica conveniente, abroga o modifica quelli obsoleti, decide la pace o la guerra, vota le imposte, ne fissa le quote, il modo di ripartizione e gli impieghi, amministra direttamente i beni comuni. L’assemblea esercita il potere giudiziario.
Tribunale “criminel, correctionnel et de simple police” conosce crimini, delitti e contravvenzioni, applica la pena di morte e punisce con ammenda le infrazioni ai regolamenti. Chiamata ad occuparsi delle questioni civili, decide essa stessa, o delega i suoi poteri a giudici-arbitri, ma in ogni caso rimane competente per l’esecuzione. Non viene redatto alcun documento riportante le deliberazioni dell’assemblea, l’uso dei registri è sconosciuto, solo in rari casi, quando le decisioni offrono un interesse maggiore, vengono registrate per iscritto; tali atti, redatti laconicamente si limitano menzionare l’oggetto della decisione e i nomi delle parti. Spesso è il marabutto del villaggio a compiere la funzione di segreteria.


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